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8 dicembre 1941: The Day After

L’attacco di Pearl Harbor, nome in codice Operazione Z,  avvenne alle prime luci dell’alba del 7 dicembre 1941, condotto da una flotta di portaerei della Marina imperiale giapponese contro la United States Pacific Fleet e le installazioni militari statunitensi di Pearl Harbor, sull’isola di Oahu, nell’arcipelago delle Hawaii.

L’aggressione nipponica durante la quale gli Stati Uniti ebbero 16 navi affondate o gravemente danneggiate, 161 aerei distrutti e 2403 morti contro i 29 aerei giapponesi abbattuti e 5 sommergibili distrutti, segna la fine di un’escalation della tensione nel Pacifico che ormai durava da alcuni mesi. La guerra diventa definitivamente globale e segnerà una tappa decisiva per il suo esito. Come si risveglia il mondo, ad iniziare dai paese belligeranti, il giorno dopo? È quello che cercheremo di illustrare sinteticamente in questo articolo.

Gli Stati Uniti

Nella tarda serata del 7 dicembre, a Washington, Roosevelt riunisce il suo gabinetto per precisare la linea che avrebbe seguito nel discorso che si apprestava a rivolgere al Congresso poche ore dopo. La convinzione che Presidente americano espresse ai suoi ministri era che «non c’era alcun dubbio che si trattasse di un’azione concordata da parecchie settimane con la Germania, e che si aspettava una possibile guerra contro Germania e Italia». Anzi, secondo il suo parere il Giappone aveva agito «sotto pressione di Berlino», che mirava a «distrarre le menti americane e britanniche dallo scenario europeo». Nonostante questa convinzione che espresse con forza al suo gabinetto, durante la lettura del discorso il giorno dopo, Roosevelt non fece menzione del presunto ruolo di Germania e Italia nell’attacco di Pearl Harbour.

Nonostante che Henry Stimson, il Segretario alla Guerra, perorasse una dichiarazione di guerra anche alla Germania e che FDR fosse intimamente convinto di questa posizione, questa possibilità fu esclusa anche per la contrarietà del resto del gabinetto. Questa esitazione era correlata al timore che il vasto movimento anti interventista americano spiazzato dall’aggressione giapponese potesse trovare nuovo fiato da una dichiarazione di guerra alle potenze dell’Asse.

Charles Lindbergh, il famoso aviatore e principale portavoce del movimento “America First” (Trump non ha inventato niente), l’8 dicembre si trovava nella sua casa, sull’isola di Martha’s Vineyard e stava preparando il discorso da tenere al grande raduno dell’AF a Boston in programma il 10 dicembre. Quando fu chiara la portata dell’attacco, Lindbergh al telefono con il generale Robert Wood, capo di America First, concordò che il raduno del 10 dicembre andava cancellato e precisarono che il movimento avrebbe dovuto battersi per circoscrivere la guerra al solo fronte del Pacifico. L’opinione unanime dei due esponenti di America First era che Roosevelt avesse fatto entrare in guerra il paese “dalla porta di servizio“. Il gruppo dirigente del movimento si sarebbe riunito a Chicago l’11 dicembre per mettere a punto la linea da seguire.

Il Giappone

A Tokyo intanto era mattino inoltrato. Alle 10:45 il Consiglio privato giapponese diramò la dichiarazione di guerra formale contro Gran Bretagna e Stati Uniti. Erano passate ben sette ore dall’inizio dell’operazione Z, e parecchio tempo da quando la radio aveva informato la popolazione dell’attacco. Più tardi quel giorno i capi giapponesi approvarono il “Piano per la prosecuzione della guerra contro Stati Uniti, Gran Bretagna, Olanda, Cina”.

Si trattava di un piano militare piuttosto semplice, diviso in due fasi. Nella prima si stabiliva l’eliminazione delle flotte nemiche, in particolare quella americana, a Manila e quella inglese a Singapore e Hong Kong e le forze di occupazione dei paesi anglosassoni in gran parte del Sud Est asiatico. Questo avrebbe permesso la creazione di un perimetro difensivo nel Pacifico, tale da proteggere la madrepatria. La seconda fase avrebbe riguardato il consolidamento e lo sfruttamento dei territori conquistati per difendersi dall’inevitabile contrattacco nemico, preparando così il paese ad una lunga guerra di logoramento.

Alle 11.30 il Primo Ministro Tojo lesse alla radio la dichiarazione di guerra terminando con una citazione della famosa poesia Umi Yukaba (“Sul mare”). «Sul mare cadaveri impregnati d’acqua, sui monti cadaveri ammucchiati sull’erba, moriremo al fianco del nostro signore, senza mai guardarci indietro». Da quel momento in poi la radio giapponese trasmetterà più volte questo messaggio, alternandolo con canzoni patriottiche e naturalmente con il discorso dell’imperatore Hiro Hito.

La reazione del popolo giapponese alla notizia dell’attacco di Pearl Harbour e della dichiarazione di guerra agli odiati e temuti Stati Uniti, rei delle sanzioni imposte all’Impero del Sol Levante, dopo un iniziale fase di sorpresa, fu entusiasta. A Tokyo ci fu un esplosione genuina e collettiva di fervore patriottico, la popolazione si riversò spontaneamente nelle strade, esultante per la grande vittoria della Marina Imperiale sui “razzisti” bianchi.

Anche nel resto del Paese gran parte della popolazione affollò i templi per pregare per la vittoria e gran parte di queste manifestazioni non ebbero bisogno della spinta organizzativa e propagandistica del governo. Era da molto tempo che la popolazione giapponese subiva il peso delle sanzioni americane, vivendo nella paura di ulteriori e più drastiche misure restrittive e questo rendeva comprensibile il senso di rivalsa e l’aspettativa, paradossale, che la guerra avrebba apportato un futuro migliore.

Questa ondata di sciovinismo ebbe la capacità di unire le forze politiche progressiste e conservatrici giapponesi, entrambe convinte del ruolo storico e “morale” del Giappone nel disegnare un nuovo ordine politico ed economico in Asia. Queste manifestazioni emotive passarono alla storia come “la filosofia dell’8 dicembre”.

Se la grande maggioranza dell’opinione pubblica e degli intellettuali si era schierata entusiasticamente dalla parte della guerra, una minoranza di gente semplice ma avveduta e di intellettuali giapponesi era consapevole che sfidare la potenza numero uno del mondo apriva le porte ad un epilogo tragico per il loro paese. L’8 dicembre si verificarono code nei negozi che vendevano elmetti e libri su come ci si protegge in caso di attacchi aerei. Crollarono le vendite dei biglietti del cinema per timore della ritorsione americana.

Nella stessa giornata la 24a flottiglia aerea giapponese, che operava dalle isole Marshall, attaccò l’isola di Wake, un’importante base aerea americana nel Pacifico centrale distruggendo molti aerei e infliggendo pesanti danni alle infrastrutture.

Gli altri

Nella notte tra il 7 e l’8 dicembre il Canada fu la prima nazione anglofona a dichiarare guerra al Giappone, anticipando sia Londra che Washington. In quelle stesse ore, dall’altra parte dell’Atlantico la città di Colonia subì un lungo bombardamento inglese e le sirene del cessato allarme suonarono soltanto alle 6.15 dell’8 dicembre. Come notò il console svizzero della città, l’umore della popolazione tedesca era piuttosto basso, le restrizioni alimentari, la paura delle incursioni inglesi prospettavano un Natale tetro.

Quella stessa mattina, Friedrich Jeckeln, comandante supremo delle SS nella Russia settentrionale, ordinò la ripresa del massacro nel ghetto di Riga, che era stato sospeso a fine novembre. Soltanto nel ghetto della città quel giorno furono massacrati 900 ebrei. Gli europei trovarono la notizia dell’attacco di Pearl Harbour sui quotidiani in vendita quella mattina. L’«Hamburger Fremdenblatt», per esempio, titolò a caratteri cubitali che il Giappone aveva «rotto l’accerchiamento», aggiungendo con orgoglio che Singapore, Hong Kong, le Hawaii e le Filippine erano state bombardate, e Shanghai occupata.

Sulla stampa dei paesi dell’Asse la guerra del Giappone contro gli Stati Uniti veniva inquadrata nel più vasto concetto della lotta dei paesi non abbienti contro quelli occidentali, rei di affamarli per preservare iniquamente le loro ricchezze. L’agenzia di stampa tedesca riportò che il giornale spagnolo «Arriba» aveva annunciato che «la schiavitù imposta dai popoli ricchi e la pazienza di quelli poveri hanno un limite».

Una vasta retorica contro le plutocrazie mondiali, rappresentate da Stati Uniti e Gran Bretagna, aveva lo scopo, anche razziale, di mettere il resto del mondo contro i due paesi anglosassoni. Rimaneva ancora inevasa la questione se Germania e Italia avrebbero dichiarato a loro volta guerra agli Stati Uniti, schierandosi con il Giappone. Su questo la radio e gli organi ufficiali tedeschi tacevano, mentre qualcosa di più filtrava da Roma.

In Russia la notizia di Pearl Harbour impiegò più tempo a diffondersi nell’immenso territorio sovietico. Due erano le preoccupazioni che attanagliavano Stalin e l’Armata Rossa, la prima era quella di un possibile attacco del Giappone ad est, costringendo l’Unione Sovietica ad una guerra su due fronti a cui era in quel momento impreparata, la seconda era la sorte del programma di aiuti americano, ancora indispensabile per sostenere il conflitto contro i nazisti.

La prima preoccupazione si dissolse l’8 dicembre stesso quando l’ambasciatore sovietico in Giappone, Kostantin Smetanin, fu convocato quella mattina dal ministro degli Esteri giapponese che dopo una lunga litania sui misfatti americani confermò la volontà dell’Impero del Sol Levante di rispettare il Patto di neutralità con l’URSS chiedendo ai sovietici di fare altrettanto. Questa notizia confermava le informazioni che erano pervenute dalla più importante spia sovietica a Tokyo, Richard Sorge.

La preoccupazione su un rallentamento o addirittura la sospensione del programma Lend Lease era il pensiero che turbava Churchill mentre da Chequers tornava a Londra quella mattina. Churchill accarezzava l’idea di volare a Washington entro giovedì per un incontro con FDR, ma il ministro degli Esteri Eden e l’ambasciatore americano a Londra erano contrari, per timore che questo incontro mettesse in difficoltà il Presidente americano, rispetto al movimento anti interventista che accusava la Gran Bretagna di spingere per l’entrata in guerra degli USA, alfine di proteggere i suoi interessi colonialistici.

In Italia Ciano era poco convinto che la guerra che il Giappone aveva mosso nei confronti degli Stati Uniti fosse una cosa buona per i paesi dell’Asse, contrariamente a Mussolini che ne era entusiasta, il Ministro degli Esteri italiani temeva che il dispiegamento dell’enorme potenziale militare e industriale statunitense alla lunga avrebbe mutato il corso della guerra.

Sia per la Germania che per l’Italia nel breve periodo, l’attacco di Pearl Harbour, aveva l’utilità di mitigare le pessime notizie provenienti dalla Russia e dal Nord Africa. Questo è il quadro per sommi capi del day after dell’attacco di Pearl Harbour.

Fonti:

alcune voci di Wikipedia

Laderman, Charlie; Simms, Brendan. I cinque giorni che hanno cambiato la seconda guerra mondiale

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