giovedì, Settembre 19

L’Antilirismo: un movimento contro la liricizzazione in poesia?

L’Antilirismo è il termine proposto da Alfredo Schiaffini per indicare la tendenza, in tutto il Novecento, al superamento dell’assetto petrarchesco della lingua poetica, abbassando il tono aulico del linguaggio lirico per farlo scivolare verso la prosa.

In questo senso, bisogna dire che la prima dichiarazione di antilirismo è quella di Giacomo Leopardi sulla “prosa nutrice del verso, giacché uno che per far versi si nutrisse solamente di versi sarebbe come chi si cibasse di solo grasso per ingrassare” (Zib.,).

Del resto, nella stessa poesia leopardiana, i giorni d’eccezione del “Canzoniere” petrarchesco sono sostituiti dal giorno lavorativo e feriale, per cui alla domenica e alle feste comandate è preferito il sabato (“questo di sette è il più gradito giorno“), alle nobili e celestiali figure femminili della tradizione poetica subentra la più prosaica “donzelletta” o il “passero solitario“.

Sul piano metrico, non è un caso che sia stato proprio Giacomo Leopardi a rifiutarsi di scrivere sonetti e a intervenire sulla struttura della canzone liberandola dalle forme chiuse della grammatica petrarchesca. Il modello poetico dell’Antilirismo sono, però, alcuni versi prosastici di Giovanni Pascoli (“E’ mezzanotte. Nevica. Alla pieve/suonano a doppio; suonano l’entrata.“) ampiamente imitati nel corso di tutto il Novecento.

Anche Eugenio Montale riconosce che il problema della poesia moderna “è di farsi prosa senza essere prosa” e che la sua soluzione sta nell’attingere al “grande semenzaio di ogni trovata poetica che è nel campo della prosa“. Così dichiara di preferire la “poesia povera” e ai ligustri e acanti dei “poeti laureati” i comunissimi limoni (“qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza/ ed è l’odore dei limoni“).

Tuttavia la demitizzazione del linguaggio lirico della tradizione è perseguita dai poeti anche con altri mezzi che, però, sono solo strumenti diversi per rispondere ad un problema identico. Aldo Palazzeschi usa la parola come un giocattolo e regredisce al linguaggio da filastrocca infantile (Nazarene settecento/tutte chiuse in un convento/senza luci e senza grate/per le suore rinserrate”).

Guido Gozzano demitizza facendo “cozzare l’aulico col prosaico“. Nelle forme che può, di volta in volta assumere nei singoli poeti, l’Antilirismo è la risposta, sul piano del linguaggio e delle tecniche espressive, a due aspetti fondamentali e complementari della poesia del Novecento.

Il primo aspetto consiste nella desacralizzazione della figura del poeta (la cosìddetta “perdita d’aureola“), ossia nel rifiuto dell’immagine del poeta – vate depositario delle certezze e dei valori della nazione e del popolo. Questo mito, riformulato dai romantici, (l’Omero foscoliano è “il sacro vate”) e, in tempi più recenti, da Giosuè Carducci (“il poeta è un grande artiere“), viene ora rovesciato nell’immagine emblematica del “poeta puer” di ascendenza pascoliana.

Il poeta si sente “dimissionario” e, via via ,si presenta come un “saltimbanco” che bisogna lasciar “divertire” (Aldo Palazzeschi), o uno che rimpiange di non “esser il buon mercante inteso alla moneta” o che addirittura “si vergogna d’esser poeta” (Guido Gozzano).

Il secondo aspetto, collegato al precedente, consiste nella scoperta tutta novecentesca della provvisorietà e precarietà della parola poetica, per cui il poeta sente di non aver più nulla da dire. L’Antilirismo può essere considerato un movimento letterario nel vero senso della parola, oppure no? Molti critici letterari lo ritengono tale e lo hanno inserito a pieno titolo nella categoria dei movimenti importanti in letteratura, molti altri invece non lo ritengono tale in quanto del movimento letterario non ha la trasgressività necessaria e quella radicalità assoluta che porta a cancellare e a riscrivere un intero universo. Di certo ha significato tanto per la poesia e ha contribuito a cambiare diversi paradigmi poetici consolidati ormai da secoli nella letteratura italiana.

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