giovedì, Settembre 19

La “camarilla” di Cadorna

Per comprendere appieno i limiti del Comandante in Capo dell’Esercito italiano durante la Grande Guerra che condurranno alla disfatta di Caporetto è utile spendere qualche parola sui collaboratori del Comando Supremo dell’Esercito.

Luigi Cadorna (di cui potete leggere una breve biografia nell’articolo “Cadorna, il generale e l’uomo” aveva uno degli Stati Maggiori più pletorici degli eserciti europei, purtroppo la numerosità dei componenti non andava di pari passo con la modernità dell’organizzazione, era privo, fra l’altro, di un Ufficio Operazioni ed era organizzato in modo poco efficiente.

Questa disorganizzazione era il frutto del carattere del “generalissimo“, accentratore, maniaco del controllo, Cadorna non concepiva alcun spazio per l’autonomia operativa e tantomeno decisionale dei suoi sottoposti che erano trattati alla stregua di semplici “impiegati”. Il “Ministero di Udine” così come sarcasticamente era definito il Comando Supremo italiano aveva sulla carta anche un vice comandante, il generale Porro che contava come il classico due di briscola.

Cadorna si circondava di ufficiali subalterni e giovani, pertanto non in grado di fargli ombra, poi aveva accanto a se un gruppetto di “amici” tutti lombardi come lui e di provenienza aristocratica che elenca in una lettera del 2 agosto 1917 (tre mesi prima della rotta di Caporetto) mentre sono insieme a lui in vacanza a Lorenzago di Cadore. Scrive Cadorna “alloggiati nella simpatica villa del senatore Facheris a 930 m. in una posizione incantevole circondata da magnifiche selve di abeti”, spiega all’amata figlia Carla: “Ho con me la mia fedele compagnia, Bencivenga, Pintor e Cavallero, Casati e Scotti: il mio piccolo Stato Maggiore”.

In questo ristretto gruppo di fedelissimi, Casati e Scotti potevano essere considerati gli amici più importanti del generalissimo, anche se dal punto di vista militare erano quelli che contavano di meno essendo dei semplici aiutanti di campo. La presenza di un numero eccessivo di lombardi nel Comando Supremo fu oggetto di critiche e di osservazioni anche malevole, sia da parte del colonnello Angelo Gatti nominato da Cadorna nel febbraio del 1917 “capo dell’Ufficio storico del Comando supremo“, di fatto designato come “storico a futura memoria della guerra italiana”, sia da alcuni influenti giornalisti dell’epoca come Ugo Ojetti.

Quest’ultimo ebbe modo di osservare “che la conventicola lombarda, che attornia il Capo, dà molto da mormorare. Porro lombardo, Sormani, Gallarati, Casati, il Capo stesso, tutti lombardi”. Il paradosso era che molti di questi ufficiali d’ordinanza scelti personalmente da Cadorna erano uomini di grande qualità intellettuale e di incontestabili origini nobiliari ma che non contavano niente all’interno del meccanismo operativo e decisionale del Comando Supremo italiano. E vediamoli brevemente questi “amici” di Cadorna che allietano le sue vacanze nel Cadore.

C’è il principe Tommaso, detto affettuosamente Tommasino, Gallarati Scotti nato a Milano il 18 novembre 1978 e quindi all’epoca trentanovenne,  figlio primogenito del Principe Gian Carlo Gallarati Scotti e della Duchessa Luigia Melzi d’Eril. Sua zia, che ricordò in Interpretazioni e memorie, era stata Bice Melzi d’Eril, amica e confidente di Ippolito Nievo.  Nel primo dopoguerra sarà uno dei firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti, e nel secondo dopoguerra ambasciatore d’Italia in diverse capitali, prima di morire nel giugno del 1966.

Tommaso Gallarati Scotti

Il marchese Camillo Casati, allora quarantenne era noto all’epoca soprattutto per il fatto di essere il marito separato della famosa marchesa Casati, che aveva conosciuto Gabriele D’Annunzio durante una battuta di caccia a Gallarate nei primi del ‘900; lei era poco più che ventenne e d’Annunzio aveva passato i 40 ed era ancora ufficialmente legato ad Eleonora Duse. Con il Vate la Casati ebbe una lunga relazione, prevalentemente platonica, cosa insolita per il libertino D’Annunzio. Donna di straordinario fascino divenne famosa per le feste più belle e rinomate d’Europa, sia nella sua dimora di Roma, che nella sua residenza nel Canal Grande o in quella di Parigi. La casa di Venezia è il palazzo Venier dei Leoni, oggi museo Guggenheim, che tanto affascinava D’Annunzio che nel Notturno scrisse : “la casa mozza di Corè ha più che mai un’apparenza di rovina incantata“.

D’Annunzio e la marchesa Casati Stampa

La relativamente anonima vita di questo rampollo della nobiltà lombarda però sarà ricordata soprattutto per essere stato il padre di Camillo Casati Stampa, che nel 1970 si suiciderà dopo aver ucciso la moglie e l’amante di lei, provocando un famosissimo scandalo (in conseguenza del quale la villa San Martino di Arcore, antica proprietà dei Casati, verrà svenduta a Silvio Berlusconi).

Se la vita la vita umana e professionale di Camillo fu piuttosto anonima, molto più interessante fu quella di suo fratello Alessandro Casati, anch’egli cattolico impegnato vicino al modernismo, nel dopoguerra ministro della Pubblica istruzione nel primo governo Mussolini, poi antifascista, rappresentante liberale nel CLN e ministro nei governi Bonomi del 1944-45. Nel 1917 Alessandro, allora trentaseienne, era ufficiale d’ordinanza del generale Capello. Il cappellano del Comando Supremo, padre Semeria lo definì un “topo di biblioteca che la guerra aveva trasformato in uomo d’azione“.

Se questo gruppo di ufficiali lombardi era quello personalmente più vicino a Cadorna, ma assolutamente ininfluente nella conduzione della guerra, un ruolo maggiore, sia pure rigorosamente subalterno, fu svolto dai tre membri della Segreteria del “Capo”. L’Ufficio di Segreteria svolgeva in parte i compiti che negli eserciti moderni erano a capo dell’Ufficio Operazioni, senza però averne piena autorità e mezzi sufficienti. Dal 1 agosto 1917 assunse il nome di “Ufficio operazioni di guerra e affari generali” ma si trattò di una modificazione essenzialmente nominalistica.

Capo della segreteria era il quarantacinquenne romano Roberto Bencivenga, anch’egli dopo la guerra antifascista e per questo confinato a Ponza, poi membro del CLN e infine deputato dell’Uomo Qualunque, la prima formazione politica populista italiana. I giornalisti che seguivano da vicino le cose del Comando Supremo si stupivano che un uomo laico e tutto sommato radicale come Bencivenga avesse una sorta di venerazione per il conservatore e cattolico Cadorna. Sarà il solito colonnello Gatti a puntualizzare: “Bencivenga non ha ancora capito, che il Capo vuol dimostrare, che egli solo comanda l’esercito ed è capace di comandarlo: e tutti gli altri intorno non sono nulla, altro che impiegati, che possono andare e venire come vogliono”.

A fiancheggiare Bencivenga nella Segreteria ci sono poi due giovani ufficiali: il ventisettenne tenente colonnello Ugo Cavallero che sotto il fascismo sarà Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e il tenente colonnello Pietro Pintor. Gli uomini scelti da Cadorna fecero tutti una carriera folgorante, al di la spesso di qualunque valutazione meritocratica. Per rimanere a Cavallero e Pintor, irritati perché venivano promossi prima di loro ufficiali impegnati sul fronte di guerra, avevano ottenuto da Cadorna una proposta di promozione per meriti eccezionali, che loro stessi avevano compilato, con cui Cavallero scavalcava 110 parigrado e Pintor 150. La commissione che doveva esaminare la proposta si rifiutò di approvarla; allora Cadorna tramutò la motivazione in avanzamento per merito di guerra e li fece promuovere entrambi colonnelli, saltando un numero ancora maggiore di parigrado.

Con questi metodi, con questa organizzazione del Comando Supremo, con questi uomini Cadorna si apprestava a condurre l’esercito italiano alla più grande disfatta della sua storia.

Fonti:

alcune voci di Wikipedia

Caporetto di A. Barbero

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