giovedì, Settembre 19

Mario Camerini, il cantore della piccola-borghesia

Mario Camerini, nato a Roma il 6 febbraio 1895 da un padre avvocato socialista e da una madre di famiglia alto borghese è considerato un regista crepuscolare, cantore della società piccolo-borghese. Non era destinato al cinema Mario, ma si può dire, senza tema di smentita che fu il cinema a sceglierlo e a diventare in seguito la sua professione.

L’apprendistato di Camerini

Dopo la Grande Guerra, rientrato dalla prigionia in Germania nel 1920, seppe che suo cugino Augusto Genina era diventato un regista affermato. Iniziò a frequentarlo, in quell’Italia sospesa tra gli ultimi bagliori della democrazia e l’insorgere della dittatura fascista. Smarrito e incerto sul suo futuro, Camerini che si era laureato in legge, seguiva il cugino per i teatri di posa dove venivano girati i film, assorbendo con curiosità gli aspetti tecnici e artistici della nuova Arte.

Editorial use only. No book cover usage. Mandatory Credit: Photo by Titanus/Kobal/Shutterstock (5861833a) Augusto Genina Genina, Augusto – 1955 Titanus Portrait Maddalena

Genina gli propose di lavorare con lui come assistente. Fu aiuto regista del cugino nei film “Tre meno due” e “Moglie, marito e …” entrambi del 1920. Augusto Genina aveva una solida tecnica a cui Mario si abbeverò mentre il valore artistico delle sue pellicole era modesto e certamente non all’altezza delle ambizioni di Augusto. Il terzo ed ultimo film che siglò come aiuto regista di Genina fu “Il Cirano di Bergerac” (1922) che concluse il breve apprendistato di Camerini.

L’esordio

Il ventottenne romano si inventò così regista sul solco dell’esempio del cugino e il primo film di cui firma la regia “Jolly clown da circo” (1923) si avvale della collaborazione per il soggetto e la sceneggiatura di un giornalista destinato a diventare famoso Orio Vergani. Una sera Vergani parlò a Camerini di un suo racconto “Jolly” destinato a diventare la base per un pezzo di teatro, dopo averlo letto Mario gli propose di trarne un film.

L’allora venticinquenne Vergani scrisse la sceneggiatura a due mani con Camerini che ne trasse un film che certamente non può definirsi un capolavoro ma aveva la freschezza tipica degli autori di talento esordienti. Le successive opere “La casa dei pulcini” (1924), “Voglio tradire mio marito” (1925) e soprattutto nel 1926 l’ennesima incursione nel filone di Maciste con “Maciste contro lo sceicco” sono opere senza infamia e senza lode.

Per quest’ultimo film anche Camerini utilizzò Bartolomeo Pagano (1878-1947), all’epoca quarantottenne, l’attore era già alla diciannovesima interpretazione del gigante forzuto Maciste. Specializzatosi in questo ruolo, ebbe una certa notorietà anche in Francia e Germania, risultando uno degli attori italiani più pagati degli anni Venti, arrivando a percepire fino a 600.000 lire l’anno!

Bartolomeo Pagano nei panni di Maciste

Il salto definitivo verso lo stile intimista e misurato del regista avviene nel 1929 con il film “Rotaie“, girato inizialmente muto, viene poi sonorizzato con il sistema Gaumont-Petersen-Poulsen e distribuito in versione sonora nel marzo del 1931. La critica lo accoglie favorevolmente, così scriveva Enrico Roma su Cinema Illustrazione del 25 marzo 1931: « […] ecco ancora una chiarissima prova che l’Italia può ormai mettersi in gara con la cinematografia estera e vincere la sua definitiva battaglia. […] Di Rotaie ammiriamo anzitutto la tecnica, impeccabile sotto ogni riguardo, l’armonia, la fusione e le proporzioni tra le varie parti, l’euritmia del montaggio, la sobrietà dei motivi decorativi e ornamentali, e la perfetta fusione tra argomento e realizzazione, tra interpretazione artistica e tecnica. […] Camerini ha spiccato il grande salto che lo porterà lontano, purché gli siano dati i mezzi necessari e libertà di movimento. […]»

Il regista dei telefoni bianchi

Con il passare del tempo Camerini inizia a proporre con più insistenza l’equazione miseria uguale bontà d’animo, ricchezza uguale malvagità e avidità. Questa divisione manichea rispecchia l’animo del regista che detesta il clima d’odio che avvelena il paese.

Il definitivo salto di qualità Camerini lo compie nel 1932 girando il film “Gli uomini che mascalzoni” che lanceranno alla ribalta un giovane Vittorio De Sica, fino ad allora attore di teatro leggero, che rese celebre la canzone Parlami d’amore Mariù, cantata in una sequenza del film dallo stesso De Sica, e rappresentò un’importante innovazione nel cinema italiano dell’epoca, per la scelta rivoluzionaria di girare in esterni invece che negli ambienti ricostruiti nei teatri di posa.

Per questo alcuni, anni dopo, parlarono di quel film come dei primi vagiti del neorealismo, ma considerare una pellicola neorealista soltanto perché girata in esterni era allo stesso tempo riduttivo e fuorviante. Dopo questa prima collaborazione, Camerini e De Sica lavorarono insieme in una serie di fortunate commedie sentimentali, tra cui Il signor Max (1937) e I grandi magazzini (1939).

L’incontro con Assia Noris

Un altro incontro fortunato Camerini lo fa nel 1933 quando gira “Giallo” e ingaggia una biondina dalle modeste doti recitative Assia Noris. Assia Noris (pseudonimo di Anastasia von Hertzfeld) nata nel 1912 a San Pietroburgo e che parlava un italiano stentato, sfruttava la tendenza di un certo cinema italiano, a cui neppure Camerini si sottrasse, di inserire nei film delle graziose presenze esotiche, meglio se slave.

Mario se ne innamorò tanto da sposarla e le insegnerà i rudimenti della recitazione e della presenza scenica tanto che la sua capacità di interpretare alla perfezione il personaggio della ragazza onesta fu uno degli elementi del successo di pellicole come Il signor Max (1937) e I grandi magazzini (1939). Assia Noris conquistò il pubblico con la sua bellezza e il suo stile di recitazione fine ed elegante, ingenuo e malizioso al tempo stesso, diventando una delle grandi dive del cinema italiano degli anni trenta e quaranta, l’unica vera icona della stagione dei “telefoni bianchi”. Il matrimonio con Camerini però durò poco, sposata nel 1940 la coppia divorziò nel 1943, in piena guerra.

Assia Noris

Un film per la propaganda fascista

Anche Mario Camerini fu costretto a pagare il suo tributo alla propaganda fascista e nel 1935 dirigerà il film “Il grande appello“, facente parte di una trilogia che va dal 1936 al 1938, composta da Sentinelle di bronzo, da Il grande appello e da Luciano Serra pilota: tre film di sfacciata propaganda imperiale dopo la conquista dell’Etiopia da parte dell’Italia. Il progetto era fortemente voluto da Luigi Freddi, alla Direzione generale della cinematografia dal 1934.

Nel 1974 Camerini ripudiò questo film, dichiarandosi pentito di averlo realizzato. Tra i suoi film più consistenti di quel periodo, meritano una citazione “Una romantica avventura” (1940) tratto da un romanzo di Thomas Hardy e “Una storia d’amore” (1942) dove un operaio sposa Anna, un ex prostituta, cercando di garantirle una vita dignitosa nonostante le ristrettezze economiche. Ricattata da un uomo al corrente dei suoi trascorsi, Anna perde la testa e lo uccide. Condannata a dieci anni, nel dare alla luce una bambina in prigione, morirà di parto.

Il canto del cigno

Ormai regista affermato, gli estimatori del tempo paragonavano Camerini al grande René Clair, in realtà Mario era un solido artigiano del cinema, cultore dei buoni sentimenti e l’unica cosa che aveva in comune con il grande maestro francese era il rifiuto per i mezzi espressivi ampollosi e retorici, tipici dell’epoca.

Finita la guerra, gli anni Cinquanta sono il canto del cigno di Camerini che girerà nel decennio nove film, quasi uno l’anno. Forse il più riuscito è “Moglie per una notte” (1952). Tratto dall’opera teatrale “L’ora della fantasia” (1944) di Anna Bonacci che ispirerà anche  Billy Wilder  per il suo Baciami, stupido (Kiss Me, Stupid) del 1964, si avvale di un cast di tutto rispetto: Gino Cervi, Paolo Stoppa, Nadia Grey e una giovane e strepitosa Gina Lollobrigida.

Il film è la contrapposizione tra due “mogli”, una falsa di facili costumi e una virtuosa. La storia è semplice, quasi didascalica, siamo alla fine dell’Ottocento, per aiutare la carriera di Enrico, un giovane musicista, Geraldine, una prostituta accetta di passare per sua moglie e farsi corteggiare dal conte d’Origo, interpretato da Gino Cervi. La vera moglie Ottavia (Gina Lollobrigida) viene a saperlo e si sostituisce all’altra.

L’ultima pellicola

L’ultimo film girato da Mario Camerini è del 1972 e ha una storia che merita di essere raccontata. Due anni prima a Brescello si stava girando, tratto dall’opera omonima di Giovannino Guareschi, “Don Camillo e i giovani d’oggi” con la coppia di grande successo Gino Cervi e Fernandel.

Le riprese del film iniziarono il 13 luglio 1970 sotto il sole cocente della pianura padana. Fernandel, pseudonimo di Fernand-Joseph-Désiré Contandin, comico, attore e cantante francese affermatissimo arrivò sul set già allestito il 20 luglio. Fernandel ebbe più volte dei mancamenti, degli eccessi di stanchezza e delle difficoltà respiratorie; a un certo punto fu colpito anche da dolori lancinanti al torace. Il 5 agosto, durante una scena sul sagrato della chiesa che prevedeva che Fernandel dovesse portare in braccio l’attrice Graziella Granata, che pesava meno di 50 chili, non riuscì a sostenerla, incespicò e cadde a terra.

Ricoverato a Parma per quattro giorno, decise di ritornare a Marsiglia per ulteriori accertamenti. Christian-Jaque, il regista e Gino Cervi, co-protagonista della fortunata serie cinematografica giunta al sesto film, lo rassicurarono che avrebbero atteso la sua guarigione per concludere il film. In realtà a Fernandel era stato riscontrato, alcuni mesi prima, durante un piccolo intervento per rimuovere un’escrescenza formatasi sotto il muscolo pettorale destro, un carcinoma di origine epatica, in evoluzione e con metastasi; partito dal fegato, il tumore aveva colpito un polmone e si era diffuso in diverse parti dell’organismo. I familiari informati della gravità della situazione  decisero di tenere all’oscuro l’interessato, cosi come all’oscuro era il regista che lo aveva ingaggiato.

Il 20 agosto la produzione interruppe la lavorazione del film e Gino Cervi tornò a Roma. La soluzione più semplice sarebbe stata quella di sostituire Fernandel con un altro attore, ma sia Christian-Jaque che Cervi si rifiutarono categoricamente. Fernandel non si riprese più e il 26 febbraio 1971 morì nella sua casa di Parigi.

A quel punto la produzione ingaggiò Mario Camerini che girò ex novo il film con due diversi attori,  Gastone Moschin nella parte di don Camillo e Lionel Stander in quella di Peppone. Sarà l’ultima pellicola firmata da Camerini. Ritiratosi dall’attività registica morirà nel 1981, due giorni prima di compiere 86 anni.

Nei film di Camerini non troverete nessun capolavoro della Settima Arte, ma senza lui e altri due o tre registi, il periodo che va dal primo dopoguerra alla fine del secondo conflitto mondiale, per la cinematografia italiana sarebbe stata un deserto costellato da opere melense, retoriche, modestissime, al limite dell’inguardabile.

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