giovedì, Settembre 19

Apocalisse di suicidi sulla fine del Terzo Reich

Il crepuscolo dello Stato Nazista fu contrassegnato non soltanto dal suicidio di Hitler e di molti altri gerarchi come Goebbels, Bormann, Krebs ma provocò un’inusitata ondata di suicidi che attraversò trasversalmente tutti gli strati della società tedesca, più marcatamente nell’est del paese rispetto alla parte occidentale. Uno dei casi più drammaticamente emblematici si verificò nella cittadina di Demmin.

Questa cittadina anseatica della Pomerania, sul fiume Peene, fino a poco prima della fine della guerra non aveva subìto bombardamenti. I bombardieri nemici la sorvolavano quasi quotidianamente ma scaricavano il loro carico di morte e distruzione nella vicina Stettino, oppure proseguendo sulla capitale Berlino. Insomma per una serie di circostanze fortunate Demmin sembrava risparmiata dagli orrori della guerra.

Poi da gennaio 1945 la cittadina fu interessata da un ininterrotto flusso di profughi provenienti dalla Pomerania orientale e dalla Prussia orientale ed occidentale. Questi profughi facevano tappa a Dommin prima di proseguire il loro viaggio della speranza verso mete situate nell’occidente del paese. Verso la fine di aprile 1945 le autorità naziste locali che avevano perorato fino a poco tempo prima la resistenza fino alla “vittoria finale”, fanno armi e bagagli e lasciano alla chetichella Demmin.

Lo stesso fanno le unità della Wermacht che dovevano assicurare la difesa della città che ritirandosi fanno saltare i ponti sulla Peene e sui suoi affluenti, la Trebel e la Tollense, isolando la città e precludendo le vie di fuga verso ovest. Gli abitanti che ancora non avevano lasciato Demmin si ritrovarono così imbottigliati, insieme a centinaia di profughi nella città con l’Armata Rossa ormai alle porte. Dai soldati che si erano ritirati dal fronte orientale i civili di Demmin erano venuti a conoscenza delle nefandezze compiute dalle SS e dalla Wermacht sulla popolazione russa e il timore di vendette e rappresaglie da parte dei sovietici era pertanto ampiamente giustificato.

Fin dall’inizio l’Operazione Barbarossa voluta da Hitler si era configurata come una guerra di annientamento verso ampi strati della popolazione russa. Centinaia di migliaia di prigionieri sovietici furono lasciati letteralmente morire di fame già nei primi mesi del conflitto. L’odio contro gli invasori nazisti, adeguatamente fomentato dalla propaganda, era pertanto un tratto distintivo della totalità dei soldati russi. Non c’era quasi soldato che non lamentasse la perdita di un congiunto o di un amico sotto il giogo crudele dei nazisti.

Il 12 gennaio 1945 questo odio sarà uno degli “ingredienti” che porterà l’Armata Rossa a sbaragliare le deboli difese tedesche. In appena tre settimane le truppe sovietiche avanzarono di 500 chilometri verso ovest, liberando i territori polacchi occupati e annessi, e quasi tutta la Germania orientale. L’impetuosa avanzata fu contrassegnata da rappresaglie, violenze e stupri ai danni della popolazione civile tedesca. I racconti di questi orrori raggiunsero la città di Demmin isolata ed indifesa.

Il 30 aprile, in una limpida giornata di primavera, le prime formazioni sovietiche penetrarono nella cittadina. Profughi ed abitanti di Demmin si rifugiarono nelle cantine, le donne più giovani ed attraenti si sporcarono il volto di fuliggine ed indossarono vestiti informi per apparire meno belle e giovani e quindi meno “appetibili“. Anche i russi furono momentaneamente arrestati nella loro avanzata dalla demolizione dei ponti sui fiumi e quindi per mezzogiorno tutta Demmin era invasa da truppe e mezzi corazzati sovietici. Già prima dell’ingresso dell’Armata Rossa in città, 21 persone si erano tolte la vita.

Il vero incubo però iniziò la notte. Bloccati nella cittadina centinaia di soldati si sparpagliarono per Demmin in cerca di bottino e donne da stuprare. Ben presto con il saccheggio alcuni edifici andarono a fuoco, gli incendi divamparono per tutta la notte distruggendo il centro storico della città. Centinaia di donne e ragazze furono violentate, molti uomini uccisi, le abitazioni saccheggiate. Ne conseguì una serie di suicidi di massa come non si erano mai visti in Germania.

Una vera isteria di massa colpì intere famiglie che si tolsero la vita, diventata un fardello insostenibile. Morirono operai e funzionari statali, casalinghe ed artigiani, pensionati ed adolescenti, donne e uomini. Ogni metodo possibile fu usato per togliersi la vita: armi da fuoco, impiccagione, taglio delle vene. Il metodo più praticato, soprattutto dalle donne, fu quello dell’annegamento: le donne si riempivano di pietre gli zaini, facendo nodi intorno ai polsi dei loro bambini e così, saldamente legati insieme, si gettavano in acqua. Ancora a distanza di settimane, sulla Peene e sui suoi affluenti galleggiavano numerosi cadaveri.

I dati sul numero dei suicidi di Demmin sono contrastanti ma la stima più prudente e credibile indica un numero compreso tra le 500 e le 1000 vittime. A ricordarli ancora oggi, una grossa pietra nel cimitero di Demmin che riporta questa iscrizione: “Morti suicidi, persero la fiducia nel senso della vita”. Se gli eventi di Demmin hanno una dimensione straordinaria essi non rappresentarono un’eccezione, una vera epidemia di suicidi sconvolse la Germania, con una certa prevalenza nelle regioni orientali.

Il terrore della vendetta sovietica è però soltanto una delle ragioni che spinsero centinaia di persone, molte delle quali comuni cittadini a togliersi la vita. Molti non ressero psicologicamente al crollo del nazismo ed alla morte di Hitler. In larghi strati della popolazione era stato ormai interiorizzata la struttura sociale, retorica e culturale dello Stato totalitario nazionalsocialista

A queste persone il suicidio sembrava l’unica possibilità per sfuggire ad un mondo che non riconoscevano più, ad un crollo di certezze e valori così, per alcuni versi, repentino ed inarrestabile da causare una frattura psichica insanabile. Per le diverse migliaia di persone che si tolsero la vita sembrava che con la morte di Hitler e la caduta dello Stato nazista fosse morto anche il loro futuro. Si trattava di un sentimento molto diffuso tanto che un rapporto del Servizio di sicurezza delle Ss del marzo 1945 si leggeva: “In molti si stanno abituando all’idea di farla finita. Le richieste di veleno, pistole e altri strumenti per darsi la morte sono dappertutto elevate. I suicidi causati da autentica disperazione per una catastrofe avvertita come imminente sono all’ordine del giorno”.

La fine della guerra e del regime nazista fu per coloro che scelsero la via del suicidio anche la fine di un’esistenza protetta da convinzioni stabili e strutturate, lasciando un deserto di valori ed un’assenza di futuro, così intollerabili da far preferire la morte ad ogni altra possibilità.

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