I contemporanei dell’epoca la descrivono come magnetica, istintiva, elettrizzante. Un vulcano in eruzione ogni volta che tocca il palco. I suoi passi sono talmente veloci da sembrare privi di ombra e il suo sguardo è scuro e penetrante. Con la sua forza esplosiva e una personalità accattivante, ha scardinato i canoni del flamenco facendo della libertà di espressione femminile il suo vessillo. Ha ammaliato e impressionato il mondo intero, tanto che un cratere di Venere porta il suo nome.
Questa è la storia di Carmen Amaya: dal Somorrostro a bailaora leggenda del Flamenco.
Carmen Amaya Amaya (non è una ripetizione, sia il padre che la madre portavano Amaya come primo cognome, passato poi alla figlia come da tradizione spagnola) nacque nei primi decenni del Novecento nel Somorrostro, il quartiere di baracche eretto sulla striscia di sabbia che un tempo separava il mare dalle fabbriche di Barcellona.
Più che un quartiere, si trattava di una vera e propria “città nella città”, data l’alta densità abitativa. Sorgeva a nord di quella che oggi conosciamo come Playa de la Barceloneta, tra i distretti di Ciutat Vella e Sant Martí.
Il flamenco è spesso associato, per ovvi motivi, all’Andalusia, ma pochi sanno che anche Barcellona ha avuto un ruolo fondamentale nella sua storia nel secolo scorso.
Le prime testimonianze del barrio Somorrostro risalgono alla fine dell’Ottocento, quando un crescente numero di migranti arrivò in città in cerca di lavoro. Non essendoci abbastanza abitazioni e con salari troppo bassi per permettersi case in muratura, iniziarono a costruire baracche di legno e ferro con materiali di recupero, spesso provenienti dal mare.
Gli abitanti del Somorrostro, molti di origine gitana andalusa, si dedicavano principalmente a due attività: la pesca e il lavoro in fabbrica. Le opportunità erano limitate anche a causa della riluttanza generale ad assumere persone provenienti da quel quartiere.
C’era però una terza possibilità: l’intrattenimento nei locali della città – sempre più attratti dal flamenco – a ritmo di chitarra, cante e baile.
Carmen nacque in una Barcellona che, all’epoca, era il polo industriale più attivo di tutta la Spagna e, grazie all’afflusso di lavoratori dal sud della penisola iberica, si trasformò presto in uno degli enclave del flamenco più importanti.
Come si può immaginare, la vita nel Somorrostro non era facile: umidità, malattie, assenza di servizi igienici e case fragili esposte alle intemperie. I tetti delle baracche venivano spesso spazzati via dal vento e le onde anomale distruggevano intere abitazioni.
Eppure, nonostante le difficoltà, nel Somorrostro regnava un forte senso di comunità, un’idea di famiglia che andava oltre i legami di sangue.
Per questo, molti di coloro che hanno vissuto nel quartiere lo ricordano con nostalgia, inclusa la stessa Carmen Amaya, che aveva un legame speciale con il mare e con la sabbia che l’avevano vista nascere.
Diceva che la sua prima idea di movimento e danza fosse nata dal ritmo delle onde e che la forza delle sue gambe derivasse dalle corse a piedi nudi sulla sabbia. Si allenava sulla spiaggia, così da far fluttuare i suoi piedi quando ballava su un tablao di legno (il tablao è sia il luogo adibito agli spettacoli di flamenco, che la superficie di legno su cui i bailaores o le bailaoras ballano flamenco).
Secondo una leggenda, la notte in cui Carmen nacque, una violenta tempesta si abbatté sul Somorrostro. La famiglia Amaya dovette abbandonare la propria baracca e rifugiarsi in quella della nonna materna per sfuggire a un’onda anomala.
Dallo sgomento per il pericolo scampato e dalla fortuna di essersi salvati, nacque la leggenda secondo cui quella tempesta fosse un segno premonitore della nascita di Carmen: un’anima destinata a travolgere il mondo come un’onda inarrestabile.
Carmen nacque in una famiglia gitana con una grande tradizione flamenca.
Sarà proprio con suo padre – José Amaya detto El Chino – e con sua zia – Juana Amaya detta La Faraona – che imparerà i primi compás (le sequenze ritmiche che caratterizzano i differenti palos, ovvero gli stili del flamenco) tra l’intimità della famiglia e le esibizioni per strada.
Suo padre, originario di Maiorca, era un tosatore di pecore venuto a Barcellona per guadagnarsi da vivere suonando la chitarra nelle taverne. Carmen provò a frequentare la scuola, ma vi rimase solo due settimane: preferiva accompagnare il padre nei suoi spettacoli.
Inizia così la sua attività di bailaora fin da bambina – una vera enfant prodige – e il suo baile, anticonformista e carico di passione, emerse rapidamente.
Si esibiva soprattutto nell’antico Barrio Chino – oggi parte dell’attuale Raval – e nei tablaos e taverne della città, come La Taurina, El Bar Manquet, El 7 Puertas e molti altri.
Data la sua giovane età, nacque una disputa sulla sua data di nascita: 1913, 1915 o 1918? Il dubbio, mai del tutto risolto, sorse dalla necessità di Carmen di ottenere l’autorizzazione per ballare nei locali insieme a suo padre.
Non passò molto prima che Josep Santpere – impresario e artista della celebre Avinguda del Paral-lel, la Broadway di Barcellona – la notasse e la scritturasse per esibirsi nei teatri di Madrid e Barcellona accanto a figure di spicco del panorama flamenco.
Nonostante la giovanissima età, Carmen aveva una personalità così travolgente da guadagnarsi il soprannome di La Capitana e dopo numerosi spettacoli in tutta la Spagna, il suo talento aveva ormai bisogno di spazi più grandi.
Nel 1929, vola per la prima volta all’estero con il Trio Amaya, composto da lei, sua zia La Faraona e sua cugina La Maria. Si esibisce a Parigi nello spettacolo Paris-Madrid al teatro Le Palace. Sempre nel 1929, viene chiamata a ballare nel mitico tablao Villa Rosa in occasione dell’Esposizione Universale di Barcellona. Durante la Semana Andaluza, il re Alfonso XIII la vede ballare e – con la sua solita audacia – Carmen gli urla: ¡Va por usted, señor Rey! (Questo è per lei, Signor Re!).
In una delle sue esibizioni a La Taurina, viene notata dal critico Sebastià Gasch, che scrive di lei sulla rivista Mirador, contribuendo a farla conoscere anche negli ambienti intellettuali. Nel suo articolo, Gasch la descrive così:
“Immaginate una ragazzina seduta sulla sedia del tablao. Carmencita: impassibile, orgogliosa e nobile. E di colpo, un salto: la piccola gitana balla. Indescrivibile. Anima, pura anima […] la sua esibizione è sentimento fatto carne.”
Il 1929 segna la svolta: Carmen lascia il Somorrostro per una tournée in tutta la Spagna. La sua carriera prende il volo e viene scritturata per i suoi primi film come Maria de la O, proprio mentre il paese precipita nella guerra civile…
Si rifugia in Portogallo con la sua famiglia e la sua compagnia, per poi partire alla volta di Buenos Aires dove aveva già in programma degli spettacoli.
Da questo momento, la sua carriera prende una svolta inaspettata: il tour organizzato a Buenos Aires supera di gran lunga ogni aspettativa e si rivela il trampolino di lancio per una carriera ancora più scintillante e, questa volta, di respiro internazionale.
Carmen coglie al volo l’opportunità e stabilisce la sua residenza a Città del Messico, che diventa il suo avamposto per esibirsi in tutta l’America Latina. Si racconta che ogni suo spettacolo generasse un entusiasmo tale che, più di una volta, fu necessario l’intervento dei vigili del fuoco per gestire la folla.
Poi arriva la chiamata dagli Stati Uniti. Carmen parte alla volta di New York per esibirsi nel teatro più prestigioso della città, il Carnegie Hall. Diventa così famosa da avere più spettacoli in programma dello stesso Frank Sinatra.
Il suo nome è sulla bocca di tutti e nessuno può resistere al fascino della bella e poderosa gitana, nemmeno il presidente Roosevelt. Ammaliato dalla fiammante bailaora, mette a sua disposizione il suo jet privato per un’esibizione alla Casa Bianca. Carmen non vuole nulla in cambio, ma accetta con gratitudine il bolero tempestato di pietre preziose che il Presidente le dona in segno di ammirazione.
L’ascesa continua quando Hollywood la chiama per girare cinque film, tra cui Original Gypsy Dances, Panama Hattie e A Knickerbocker Holiday.
Con lei viaggia sempre tutta la famiglia. La fama e il denaro sono certamente benvenuti, ma non sono mai la sua priorità. Al primo posto ci sono sempre i suoi cari – inclusi i membri della compagnia con cui si esibisce – e il baile.
Chi l’ha conosciuta nella vita privata la descrive come una persona semplice, umile, di poche parole quando mancava la confidenza necessaria, e profondamente religiosa.
Nel suo animo si celava una pena che esorcizzava attraverso il flamenco. Non di rado si sentiva triste: la sua mandibola era spesso tesa e i suoi occhi neri scavavano nel profondo di chi li incrociava. Adorava il caffè scuro e amaro, e guai a separarla dalle sue sigarette Camel senza filtro.
Dopo undici anni di tournée in giro per il mondo, nel 1947 Carmen rientra finalmente a Barcellona, che diventa il suo quartier generale in Europa. Il suo ritorno viene celebrato con tutti gli onori, accolto quasi come l’arrivo di una santa o di una divinità.
Da lì riparte per altri spettacoli di successo nelle principali capitali europee e dell’America Latina. In un’esibizione a Londra, viene immortalata accanto alla Regina Elisabetta II in una fotografia che sarà intitolata Two Queens Face to Face – “Due regine faccia a faccia”.
Nel 1951 sposa Juan Antonio Agüero, il chitarrista entrato nella sua compagnia durante un tour in Francia.
La sua carriera prosegue instancabile tra un tour e l’altro, ma il legame con Barcellona e con il quartiere in cui è nata si fa sempre più forte. Annulla persino alcune date già programmate pur di essere presente all’inaugurazione della fontana a lei dedicata nel 1959 – la Fuente de Carmen Amaya – costruita proprio nel punto esatto dove, da bambina, andava a raccogliere l’acqua per la sua famiglia.
Per lei, il più grande onore è quello di rappresentare qualcosa per la sua città e per il suo quartiere, il Somorrostro. Un quartiere destinato a scomparire a causa dei piani di riqualificazione urbana, spesso attuati in modo coatto, tra gli anni ’50 e ’60. Con esso, rischia di svanire anche la memoria storica di tutto ciò che aveva significato per la città e per chi ci viveva.
Per ringraziare di questo riconoscimento, Carmen organizza uno spettacolo di beneficenza al Palau de la Música Catalana di Barcellona. Molti abitanti del Somorrostro, però, non possono permettersi il biglietto d’ingresso. Decide allora di recarsi quella stessa notte nel quartiere per esibirsi in uno spettacolo più intimo, riservato a chi non aveva potuto vederla sul palco e per ritrovarsi ancora una volta con la sua gente.
L’ultimo grande contributo che offre alla sua città arriva nel 1963, quando prende parte alle riprese di Los Tarantos, film di Francisco Rovira Beleta. Una rilettura di Romeo e Giulietta in chiave gitana, girata quasi interamente nel Somorrostro.
Candidato all’Oscar come miglior film straniero, Los Tarantos contribuisce a rendere immortale la società gitana – da cui proviene Carmen – parallela a quella della Barcellona benestante. Ma soprattutto, rafforza l’eternità della sua figura di bailaora: il suo legame con il flamenco e con le sue radici va oltre la fama mondiale. Carmen è il suo baile. Carmen è Somorrostro. Al di là di ogni successo.
Purtroppo, durante le riprese del film, i sintomi della malattia che l’affligge fin dall’infanzia si fanno più gravi. Si tratta di un’insufficienza renale per cui non esiste una cura.
Molti sostengono che se sia vissuta così a lungo, è stato proprio grazie al ballo: il sudore l’aiutava a eliminare le tossine che il suo corpo non riusciva a espellere. Questa convinzione alimenta la percezione di un legame inscindibile tra Carmen e il suo baile, come se fosse il ballo stesso a tenerla in vita.
Non vedrà mai la pellicola ultimata. Si spegne il 19 novembre 1963 nella sua casa di Bagur, davanti a quel mare che, da bambina, le aveva insegnato a ballare.
Ai tempi di Carmen Amaya, il flamenco era strettamente legato alla cultura gitana spagnola e seguiva rigide distinzioni di genere: gli uomini erano più presenti nelle esibizioni e adottavano stili diversi dalle donne, sia nella danza che nell’abbigliamento.
Carmen rivoluziona la figura della bailaora, dando inizio a una nuova scuola di baile, in un’epoca in cui il femminismo avanza a fatica, tra ostacoli e resistenze.
Il baile femminile si concentrava principalmente sui marcajes (passi che marcano il ritmo con movimenti combinati di piedi, braccia e corpo), sui quiebros e sui braceos (movimenti che coinvolgono soprattutto la parte superiore del corpo).
Il zapateado – la tecnica virtuosistica in cui i piedi diventano strumento percussivo – era riservato agli uomini. Per le donne, veniva semplificato e relegato a ornamento o come chiusura nei finali.
Carmen rompe questi schemi con un baile tutto suo, in cui i movimenti non seguono solo canoni estetici femminili, ma traducono le emozioni in energia pura, con forza, libertà e virtuosismo. Qualità, fino ad allora, riservate esclusivamente agli uomini.
Sdogana anche l’uso del pantalón per le donne al posto del tradizionale abito con bata de cola, un cambiamento estetico che influenza inevitabilmente lo stile del baile e che segnarà le future generazioni di bailaoras (come La Singla, La Chana, La Chunga, per citarne alcune).
Carmen Amaya non è stata solo una bailaora straordinaria, ma un simbolo di ribellione, talento e passione.
Il suo stile innovativo e la sua potenza espressiva hanno lasciato un’impronta indelebile nella storia del flamenco, ispirando generazioni di artisti e amanti di questa forma d’arte.
Ancora oggi, il suo nome risuona come un’eco nella memoria del baile, ricordandoci che il flamenco è più di una danza: è vita, battito e libertà.
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