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Convivere con la guerra

Per il mondo in fiamme, convivere con la guerra, fu un’esperienza certamente drammatica ma molto diversificata a seconda dei tempi e dei luoghi presi in considerazione. Ad esempio tra il 1941 ed il 1944 le truppe di terra inglesi ed americane furono impiegate in numero relativamente esiguo e su specifici teatri di operazione (Nord Africa, Asia, Italia e nel Pacifico), mentre aviazione e marina si trovarono in azione su larga scala e sostennero una parte fondamentale del conflitto contro il Reich nazista ed il Giappone.

Dal punto di vista dei numeri assoluti le perdite di aviazione e marina si contavano nell’ordine di alcune centinaia, niente a che vedere con le carneficine delle battaglie terrestri. Per avere un’idea dell’incidenza delle vittime soltanto l’Unione Sovietica subì il 65% dei decessi di tutti gli eserciti alleati, la Cina il 23%, mentre Stati Uniti e Gran Bretagna si attestavano al 2%.

Per quanto riguarda la popolazione civile le perdite tedesche ammontarono all’8%, gli jugoslavi il 6,67%, gli olandesi il 3,44%, il 4% i greci, 1,35% i francesi, il 3,78% i giapponesi, il 2% i cinesi mentre gli inglesi si fermarono allo 0,94% e gli americani appena allo 0,32%.

Tra le forze armate naziste morirono il 31% dei tedeschi arruolati nella Wehmarcht, quasi il 18% nella Luftwaffe e ben il 35% dei tedeschi arruolati nelle Waffen-SS. Un numero limitato di combattenti trovò il modo di “godersi” la guerra soprattutto quando la sua parte stava vincendo. Il tenente Robert Hitchens della Royal Navy, nel luglio 1940, scrisse in una lettera a casa: “Trovarmi sul ponte di una nave di Sua Maestà, con il capitano che mi parla da pari a pari e sapere che nelle prossime ore mi sarei preso cura di essa….Chi non preferirebbe morire così piuttosto che vivere come tanti poveracci, nelle città piene di gente a lavorare in qualche posto al chiuso?”. Hitchens fu accontentato dal destino poiché trovò la morte in azione nel 1942.

Tra il 1941 ed il 1944 soprattutto per impulso di Churchill furono potenziate i reparti d’elite, le forze speciali in grado di compiere audaci missioni in territorio nemico con lo scopo di acquisire informazioni, distruggere installazioni e comunque dare un significato all’assenza, soprattutto sul fronte occidentale, di una vera campagna di terra.

Uno dei raid più famosi (ed utili) ebbe luogo la notte del 22 febbraio 1942 un piccolo contingente di paracadutisti britannici attaccò una stazione radar tedesca su uno sperone roccioso, a Bruneval, vicino a Le Havre, sulla costa francese. Le informazioni acquisite dall’intelligence inglese, grazie anche alla Resistenza francese, riportavano la presenza di una guarnigione di circa 200 uomini tra operatori e reparti di difesa, sistemati in una fattoria a 150 metri verso nord dalla postazione radar. Sotto la guida del maggiore John Frost, 120 paracadutisti atterrarono sulla neve nei pressi della stazione radar. La presero d’assalto sopraffacendo facilmente una debole resistenza e la difesero strenuamente dai contrattacchi della guarnigione tedesca mentre un tecnico della RAF, il maresciallo di terza classe Cherles Cox, smontava i componenti chiave dello scanner Wurzburg. Il commando poi si aprì la strada combattendo verso la spiaggia dove alcuni mezzi da sbarco li portarono in salvo. La missione era stata un successo e gli inglesi avevano avuto soltanto 2 vittime e sei prigionieri.

Non tutti i raid però avranno lo stesso successo ed in alcuni casi si risolsero in veri e propri disastri, ma tutti ebbero la funzione psicologica di mantenere un minimo di morale nelle truppe di terra costrette a stare a guardare mentre il grosso del “lavoro sporco” veniva fatto dalla marina e dell’aviazione e sul fronte orientale dall’Armata Rossa. La guerra offrì anche straordinarie opportunità di carriera ai soldati di mestiere.

Quelli che sopravvivevano erano in grado di scalare la gerarchia militare con una velocità impensabile in tempo di pace. L’esempio più folgorante fu certamente rappresentato da Dwight Eisenhower che in cinque anni passo da colonnello a generale a cinque stelle. Il suo rivale Montgomery, che nel 1942 era un tenente generale totalmente sconosciuto fuori dal suo ristretto ambito, in due anni si trovò comandante di un gruppo d’armate ed eroe nazionale.

Ai livelli inferiori ufficiali di carriera che avevano iniziato la guerra come tenenti a venticinque anni erano già colonnelli o generali di brigata. Molto diversa era la situazione ed il sentimento verso la guerra di civili arruolati e mandati lontano da casa per migliaia di chilometri a combattere una guerra che a volte neppure capivano. “Sono assolutamente stufo di tutto questo” scrisse il commissario di bordo Jesse Jackson alla moglie dal Mediterraneo nel maggio del 1941. “Della sporcizia, del sudiciume, delle mosche e del caldo e soprattutto della mancanza di tue notizie”.

La maggior parte dei combattenti si aggrappava alla speranza di poter tornare quanto prima alla vita “normale” e ed il ventiquattrenne tenente Peter White affermava: “Ci devono volere più o meno sette anni perché un essere umano si senta davvero un soldato e non un civile agghindato.” Peter Baxter, caporale della RAF, chiosava amaramente: “Tutta la mia generazione sta buttando alcuni dei migliori anni della propria vita in questa triste faccenda che è la guerra”. La vita militare riusciva ad abbrutire gran parte delle reclute, a parte una stretta minoranza di soldati più colti l’uso del turpiloquio come comune intercalare era un fatto largamente diffuso. Una frase non era completa senza qualche intercalare osceno.

Il servizio attivo, quando arrivava cambiava tutto, l’intero modo di vita di una persona. Scrisse il corrispondente americano E.J. Kahn: “Con l’andare del tempo un cittadino chiamato alle armi si trasforma gradualmente da un essere che vive prevalentemente al chiuso ad un essere che vive esclusivamente all’aperto”.

Il combattimento poi scavava un solco profondo tra coloro che ne sperimentavano l’orrore e parenti, amici e colleghi che erano rimasti in patria. In tutti gli eserciti i soldati impegnati in prima linea nutrivano un profondo disprezzo per il numero esorbitante di soldati impegnati nelle retrovie per funzioni logistiche. La ragione era semplice: un soldato britannico od americano che arrivava in Francia nel giugno del 1944 aveva il 60% di probabilità di rimanere ucciso prima della conclusione della campagna, percentuale che saliva al 70% se si trattava di un ufficiale mentre gli uomini dell’immensa macchina logistica, statisticamente, correvano gli stessi rischi di un operaio in patria.

Alla fine della fiera l’elemento che teneva uniti i soldati ed impediva a volte che la paura tracimasse nel panico era la lealtà verso i commilitoni. Si combatteva e si moriva per i propri compagni di plotone e di compagnia, prima ancora che per la Patria o per astratti ideali di libertà e giustizia. Il tempo acquisiva un significato diverso. Pochi mesi in guerra erano un eternità. Solo un piccolo gruppo di chi era in guerra sperava in qualcosa di diverso della semplice sopravvivenza. L’ossessione per il ritorno a casa era fortissimo soprattutto sugli americani. In qualche misura diverso fu il comportamento per una parte maggioritaria delle truppe tedesche.

Ancora oggi è in parte un mistero come questo esercito di leva, composto da “cittadini in uniforme” quanto gli eserciti alleati, si fosse dimostrato sul campo nettamente e costantemente superiore. Una parziale spiegazione è senz’altro riscontrabile nella superiore qualità degli ufficiali e nella dottrina di combattimento che favoriva gli spazi di autonomia operativa e di spirito di iniziativa. Certamente giocò un ruolo fondamentale, soprattutto per le Waffen-SS il pervasivo indottrinamento che in quasi dieci anni di dittatura e di propaganda orchestrata dal Ministero di Goebbels aveva forgiato larga parte della gioventù tedesca.

Valmont57

Diversamente giovane, fondatore di Wiki Magazine Italia, (già Scienza & DIntorni), grande divoratore di libri, fumetti e cinema, da sempre appassionato cultore della divulgazione storica e scientifica.

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