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Covid19: Cosa hanno in comune Lombardia, Svezia e Stati Uniti?

La Svezia è stata uno degli ultimi paesi ad abbandonare la convinzione di poter convivere con la pandemia adottando misure restrittive leggere. Il conto salato che Covid19 sta presentando al governo svedese ha alimentato aspre polemiche soprattutto dal fronte sanitario e costretto l’esecutivo a rivedere il suo approccio per il contenimento del contagio.

A ieri la Svezia registra 11.927 casi ufficiali di contagio e 1203 morti che indicano un tasso di mortalità di 101 per milione di abitanti, rispetto al 51 della vicina Danimarca e agli appena 11 decessi per milione di abitanti registrati in Finlandia, paesi scandinavi che da subito hanno attuato severe politiche di distanziamento sociale e di lockdown.

Il tasso di mortalità svedese è significativamente più alto di quello della Germania, che registra 37 decessi per milione di abitante e degli Usa, 79 per milione di abitanti, sebbene assai inferiore a quello del Regno Unito (182), della Spagna (386) e dell’Italia (348).

Il dato italiano è però in gran parte negativamente “drogato” dai numeri della Lombardia. Dei 21.645 decessi registrati al 15 aprile infatti ben 11.377 sono avvenuti in Lombardia, oltre il 50% del totale. Lombardia e Svezia hanno per altro la stessa popolazione, circa 10 milioni di abitanti.

Un minimo comun denominatore tra lo stato scandinavo e la regione più ricca d’Italia è la gestione della sanità pubblica. In entrambi i contesti nel corso degli ultimi anni sono state implementate generose politiche di sviluppo della sanità privata a discapito di quella pubblica. In Svezia ci sono soltanto 300 posti di terapia intensiva disponibili, per altro ad oggi praticamente in saturazione, tanto che il Karolinska Institute di Stoccolma ha dato indicazioni agli operatori sanitari svedesi  di non considerare una priorità gli anziani che hanno più di 80 anni, né quelli di 70 anni «che hanno un problema a più di un organo» e i 60-70enni «sui quali si riscontra una patologia su più di due organi».

La situazione lombarda agli inizi dell’epidemia stabilita formalmente il 21 febbraio scorso era di circa 500 posti letto in terapia intensiva tanto che il 15 marzo l’assessorr al Welfare Gallera dichiarava che ne erano rimasti disponibili soltanto una ventina. Con un grande sforzo collettivo il numero poi si è progressivamente ampliato fin quasi a raddoppiare ed associato al calo dei ricoveri in terapia intensiva degli ultimi dieci giorni ha reso questa sorta di “ultima linea di difesa sanitaria” gestibile.

Il vero danno però alla sanità pubblica è stato fatto a livello territoriale disarticolando la rete dei medici di famiglia e soprattutto depotenziando le politiche di prevenzione e di sorveglianza sanitaria della popolazione.

Gli Stati Uniti poi sono il trionfo della sanità privata e milioni di persone sono escluse dalle cure o non in grado di assicurarsi determinati livelli di assistenza sanitaria perché sprovvisti di assicurazione o con assicurazioni sanitarie di “basso livello”. Il sistema è fragile, con 2,8 letti d’ospedale ogni 1.000 persone, circa 46.500 posti letto per terapia intensiva, 160.000 ventilatori a fronte di una popolazione di 328,2 milioni di abitanti.

Si stima che in base al furore della pandemia negli Stati Uniti ci vorrebbero 200.000 posti in terapia intensiva. La situazione è particolarmente grave se si pensa che 30 milioni di persone non hanno l’assistenza sanitaria e altri 44 milioni hanno una copertura così ridotta che sono sempre preoccupati per i costi di assistenza.

Insomma pur con tutti i distinguo e le differenze del caso queste tre realtà sono accomunate da un’enfatizzazione del ruolo della sanità privata che si traduce anche in generosi e cospicui finanziamenti a discapito della sanità pubblica. Questo modello di sanità ha mostrato tutti i suoi drammatici limiti quando è stato investito dalla tempesta del SARS-COV-2.

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