domenica, Settembre 8

Funeralopolis – A Suburban Portrait, la società del malessere

Fa un certo effetto guardare Funeralopolis – A Suburban Portrait (2017) alla luce dell’espansione del mercato illegale di Fentanyl nelle periferie di Milano. Nel film, la cinepresa di Alessandro Redaelli mostra senza filtri la quotidianità costellata da dosi di eroina, spaccio e atti vandalici dei due rapper milanesi Vashish e Felce.

Sorge spontanea una domanda: qual è lo scopo di esporre un pubblico – peraltro già saturo di contenuti estremi – a ulteriori immagini disturbanti? Non bastavano quelle ormai celeberrime diffuse dai telegiornali che illustrano i devastanti effetti delle nuove droghe?

Cinema diretto e servizi d’informazione audiovisivi

Innanzitutto, ci sono delle differenze sostanziali tra il cinema diretto e il contenuto informativo. Il regista di Funeralopolis si prende tutto il tempo per cercare di comprendere le ragioni dietro i comportamenti autodistruttivi dei due rapper: basti pensare che la durata del primo montaggio del film era di sei ore.

Il regista, e con lui il pubblico, si rapporta a due persone prima che a due tossicodipendenti. Di conseguenza, questi trovano nel documentario uno spazio in cui esprimersi liberamente, e si ha così modo di conoscere la ricca interiorità e l’umanità di due soggetti che, in altri contesti, tendono a subire una sorta di disumanizzazione. Il risultato finale, dunque, è che il pubblico finisce per empatizzare con i protagonisti nonostante il loro controverso approccio alla vita. Questo aspetto è totalmente assente nei telegiornali, quotidiani e simili.

Il ruolo dell’empatia

È l’empatia il punto focale. È il fattore decisivo che separa l’informazione dal cinema documentaristico. Non si sta dicendo che i servizi di informazione sbagliano, anzi: essi semplicemente svolgono un’altra funzione. Il loro scopo è (o perlomeno dovrebbe essere) quello di divulgare fatti in maniera chiara, dettagliata e neutra, così da dare la possibilità ai fruitori di sviluppare il proprio pensiero senza influenze esterne.

Quando entra in gioco l’empatia, la neutralità viene persa automaticamente. Ma talvolta l’abbandono della neutralità è necessario per cercare di comprendere fenomeni che, affidandoci all’istinto, non esitiamo a condannare duramente. In fondo, è quello che insegna anche la serie Dahmer: non si tratta certo di giustificare il serial killer, ma accompagnandolo nella sua storia personale si capisce che è una semplificazione ricondurre le ragioni delle sue azioni alla sola malattia mentale. Con Funeralopolis – A Suburban Portrait si ha qualcosa di simile: Vashish e Felce fanno quel che fanno in reazione a un malessere determinato da motivi sia individuali che collettivi.

È scomodo rendersi conto che, in fondo, le azioni di questi individui non sono delle semplici anomalie del sistema. Ma questo è il ruolo dell’arte: rimettere in discussione il dato di fatto.

Lavoratori e tossicodipendenti

In un’intervista separata dal film, infine, Vashish fa notare come ognuno abbia il proprio modo di sfogare il malessere: alcuni con la droga, certi con la violenza, altri con il sesso, altri ancora con il lavoro (probabilmente la maggioranza, anche se magari chi lo fa non se ne accorge nemmeno).

Ognuna di queste modalità è più o meno accettata dalla società, ma, in fin dei conti, si tratta di una reazione a sentimenti simili. Si dirà che, a differenza di un criminale, chi si sfoga col lavoro porta un beneficio alla società. Verissimo. Ma occorre chiedersi se costoro sono animati principalmente dal desiderio di fare del bene al mondo in cui viviamo, oppure (anche) da altro.

Ed è qui che le differenze tra il lavoratore diligente e instancabile e il tossicodipendente si assottigliano. Può essere inquietante porre queste due figure sullo stesso piano: quantomeno costringe a interrogarsi seriamente sui meccanismi fondanti della società in cui siamo immersi.

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