lunedì, Settembre 16

I “collaborazionisti” nella seconda guerra mondiale

I nazisti, ed in misura minore i fascisti italiani, furono felici di poter sfruttare i risentimenti, nei territori occupati, di fazioni politiche o minoranze etniche che ritenevano, a torto o ragione, di aver conti da regolare con le strutture politiche e sociali dei governi destituiti dall’occupazione delle forze dell’Asse.

Non si trattava soltanto di applicare il vecchio e collaudato principio del divide et impera ma anche di ridurre i costi e la fatica di amministrare e sfruttare i territori occupati. Le persone che si offrirono di aiutare i nazisti a gestire il potere nei loro paesi occupati vennero definiti con il termine dispregiativo di “collaborazionisti”. Il fenomeno però era più complesso di una semplice adesione per ragioni di tornaconto personale, in alcuni casi l’adesione alla causa dell’occupante fu generata dall’illusione di poter soddisfare antiche aspirazioni.

E’ il caso ad esempio del Belgio, dove alcuni esponenti della comunità fiamminga, ripeterono il tragico errore già commesso nella Grande Guerra, di appoggiare il regime tedesco nella speranza di poter spezzare il monopolio delle classi dominanti di lingua francese ed ottenere in un ragionevole futuro l’agognata autonomia.

Furbescamente i tedeschi liberarono i prigionieri di origine fiamminga entro la fine del 1940, mentre quelli di etnia vallone rimasero nei campi di concentramento fino alla fine della guerra. In altri casi l’occupazione tedesca sarà sostenuta da vere e proprie guerre civili, come accadrà in Italia dopo l’armistizio dell’8 settembre e la nascita della Repubblica di Salò.

E se in Polonia i tedeschi non cercarono collaborazionisti, nei paesi baltici, in Finlandia inizialmente la Wermacht fu accolta con favore da una parte significativa della popolazione come risposta al temuto espansionismo sovietico. Gli ucraini dopo il 1941 fecero di tutto per assicurarsi l’indipendenza, regioni della Galizia orientale e dell’Ucraina occidentale furono dilaniate da una sanguinosa guerra civile combattuta su un fronte da partigiani anti nazisti e sull’altro da partigiani anti sovietici.

Polacchi ed ucraini combatterono pro e contro la Wermacht e l’Armata Rossa a seconda del luogo e del tempo di quei quasi sei anni di conflitto. Nei Balcani poi i termini “collaborazionista” e “partigiano” assunsero connotati ambigui e sfumati. Chi era il generale Dragoljub “Draža” Mihailović, il leader serbo dei cetnici, un patriota, un partigiano o un collaborazionista?

Più semplice, forse, il giudizio storico sul regime ustascia di Ante Pavelić (1889 – 1959) fondatore del movimento fascista e nazionalista degli Ustascia e dittatore con il titolo di Poglavnik (Guida) dell’autoproclamato Stato indipendente di Croazia dal 1941 al 1945. Lo stato fantoccio e fascista di Pavelic si rese responsabile dello sterminio di oltre 200.000 serbi.

Ma i serbi furono perseguitati e colpiti anche dai “partigiani” monarchici di Mihailović e per questo in Bosnia collaborarono attivamente con i tedeschi. Tra gli esempi più eclatanti di collaborazionismo con il nemico non si può non ricordare l’attività di Vidkun Abraham Lauritz Jonssøn Quisling, ufficiale dell’esercito e fondatore nel 1933 del partito nazista norvegese che si mise al servizio di Hitler e delle forze armate tedesche che all’inizio della seconda guerra mondiale avevano occupato la Norvegia. Durante l’invasione capeggiò un governo fantoccio che aveva il compito di tradurre in atto la volontà degli occupanti, diventando il Primo ministro della Norvegia dal febbraio 1942 alla fine della seconda guerra mondiale.

Quisling, il cui stesso nome diventerà sinonimo di collaborazionista, al termine della guerra venne fatto prigioniero dal Fronte patriottico norvegese. Dopo un processo per alto tradimento, fu condannato a morte e giustiziato il 24 ottobre 1945.

In Francia una situazione simile a quella norvegese ma con alcune sostanziali differenze fu rappresentata dal governo di Vichy, ufficialmente Stato Francese che sotto la guida del maresciallo Petain, estendeva una debole autorità amministrativa sulla parte meridionale della Francia, ad eccezione di Mentone, occupata dagli italiani e della costa atlantica controllata direttamente dai tedeschi. Ufficialmente indipendente, in realtà era uno Stato satellite del Terzo Reich.

In verde scuro i territori del governo di Vichy

Il 25 luglio 1945 Pétain venne processato davanti alla corte marziale, sotto l’accusa di alto tradimento nei confronti della Repubblica francese e condannato a morte. Charles De Gaulle tuttavia, a causa dell’età e delle precarie condizioni di salute del maresciallo, dispose che la condanna a morte fosse commutata in una condanna al carcere a vita. Pétain fu così internato all’Île d’Yeu, dove morì sei anni dopo, il 23 luglio 1951.

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