lunedì, Settembre 16

I misteriosi “pevatron”

In un articolo precedente Quel volo in mongolfiera: alla scoperta dei raggi cosmici abbiamo raccontato della scoperta di questa radiazione che “bombarda” da ogni direzione il nostro pianeta. Oggi, ad oltre 100 anni dalla scoperta di Hess conosciamo piuttosto bene la natura dei raggi cosmici, si tratta per il 90% di protoni, oltre a nuclei atomici ionizzati e una “manciata” di elettroni che viaggiano ad una velocità prossima a quella della luce.

Per misurare l’energia dei raggi cosmici utilizziamo l’elettronvolt un’unità di misura dell’energia, molto usata in ambito atomico e subatomico. Fortunatamente la nostra atmosfera ci offre un prezioso scudo protettivo rispetto a questo bombardamento, un’esposizione prolungata ai raggi cosmici sarebbe infatti letale per il nostro organismo.

Un’attenta osservazione dell’universo ci suggerisce l’esistenza di veri e propri acceleratori naturali di particelle, capaci di produrre raggi cosmici, la cui energia può raggiungere (e superare) un milione di miliardi di elettronvolt, vale a dire 100 volte superiore alle massime energie raggiungibili facendo collidere i protoni al LHC del CERN di Ginevra.

Gli oggetti astrofisici responsabili dell’emissione violenta di queste particelle sono chiamati “pevatron“. Uno studio del 2021 ha rivelato la presenza in diverse zone della nostra galassia di ben 12 sorgenti di raggi cosmici di energia elevatissima. Sulla reale natura di questi oggetti la comunità scientifica è ancora divisa e incerta. La ricerca sui pevatron entra a pieno titolo nel filone dell’astronomia multimessagero che offre la possibilità di estrarre informazioni su violenti eventi astrofisici analizzando segnali cosmici di tipo diverso.

L’enigma dei pevatron è reso tale dal fatto che i protoni interagiscono con i campi magnetici galattici ed extra galattici e nel percorso tra la loro sorgente e la Terra subiscono numerose deflessioni rendendo praticamente impossibile ricostruirne l’origine. C’è tuttavia un modo per aggirare l’ostacolo: una volta generati, spesso i raggi cosmici producono a loro volta fotoni gamma (radiazioni elettromagnetiche di alta energia) e neutrini in seguito all’interazione con materia interstellare o campi elettromagnetici presenti nelle vicinanze.

A differenza dei raggi cosmici, i fotoni gamma e i neutrini si muovono in linea retta nell’universo, giungendo indisturbati fino agli osservatori terrestri, che hanno così la possibilità di risalire in modo relativamente semplice alla regione di provenienza. Analizzando questi “messaggeri” è relativamente semplice risalire in modo più preciso alla regione di provenienza. L’attenzione dei ricercatori è particolarmente focalizzata sulla radiazione gamma, costituita da fotoni ad altissima energia.

I fotoni gamma sono osservati in modo indiretto: quando incontrano gli atomi dell’atmosfera terrestre, i fotoni producono uno sciame di particelle (principalmente elettroni, positroni e altri fotoni) che arrivano a Terra e possono venire osservati dalla rete KM2A. Ma non finisce qui, perché l’esperimento è dotato anche del Water Cherenkov Detector Array (WCDA), una grande vasca riempita con circa 80.000 tonnellate di acqua dove è possibile rilevare lo sciame di particelle cariche grazie all’effetto Cherenkov e di 18 telescopi che osservano la luce Cherenkov e di fluorescenza prodotta dagli sciami direttamente in atmosfera.

L’effetto Čerenkov consiste nell’emissione di radiazione elettromagnetica da parte di un materiale le cui molecole sono polarizzate da una particella carica in moto che lo attraversa. L’effetto Čerenkov si manifesta solo quando la velocità della particella nel mezzo attraversato risulta superiore alla velocità di fase della luce nello stesso mezzo. Più in generale si parla di radiazione Čerenkov, quando il mezzo attraversato non è “trasparente” alla luce visibile. È così chiamato in omaggio al fisico sovietico Pavel Alekseevic Čerenkov, che ha ricevuto il premio Noble per la fisica nel 1958 per studi su questo fenomeno.

Sulla base delle osservazioni fin qui svolte uno dei candidati “pevatron” sarebbero i resti di supernova per l’esistenza di campi magnetici molto intensi, indispensabili per accelerare le particelle. Tuttavia il primo pevatron osservato sembra avere un’origine diversa. A scovarlo è stato l’esperimento H.E.S.S. nome che omaggia lo scopritore dei raggi cosmici. I cinque telescopi di H.E.S.S. si trovano in Namibia, nel 2016 i ricercatori annunciarono di aver osservato una radiazione gamma pari a circa 0,1 petaelettronvolt proveniente dal centro della Via Lattea, presidiata come sappiamo da un buco nero supermassiccio.

L’intensità energetica di questa radiazione però ha suscitato dubbi sul fatto che sia effettivamente prodotta da un pevatron. Grazie però alla grande vasca riempita con circa 80.000 tonnellate d’acqua, l’esperimento nel corso del 2021 ha individuato con precisione 12 regioni della Via Lattea che ospiterebbero i pevatron sorgenti.

Insomma il rebus sulla natura dei pevatron è ancora da decifrare e l’astronomia multimessaggero rimane l’arma decisiva per venirne a capo. Speriamo presto.

Fonti:

alcune voci di Wikipedia

Le Scienze, marzo 2022, ed. cartacea

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