domenica, Settembre 8

Il colonialismo britannico, nella storia e nella letteratura

Con questo articolo si vuole introdurre i lettori nella storia e nella letteratura inglese durante quella lunga stagione che ha contraddistinto il colonialismo britannico. L’intento è quello di fornire spunti di conoscenza e di riflessione che poi ciascun lettore potrà, se vuole, approfondire individualmente.

Il contesto geopolitico

L’Impero Britannico, fondato prevalentemente su colonie, ma anche protettorati, domini e altre forme di amministrazione è stato uno dei più vasti imperi di tutti i tempi. Nel 1920 l’Impero britannico governava quasi mezzo miliardo di persone, un quinto della popolazione mondiale dell’epoca e copriva quasi un quarto dell’intera superficie della Terra. Questo risultato è stato perseguito facendo leva sulla conquista e sottomissione di
altri popoli e dei loro territori, sfruttandone le risorse sia attraverso situazioni di oppressione violenta dei popoli che di corruzione del sistema.

Con il colonialismo i britannici sfruttarono le risorse umane e naturali dei territori sottomessi e in questo
modo l’economia britannica crebbe, l’impero britannico si sviluppò e la Gran Bretagna divenne la nazione
più potente del mondo.

Alle origini del colonialismo britannico

I primi passi del colonialismo britannico avvengo sotto il regno di Elisabetta I che utilizzerà i corsari per danneggiare le linee di comunicazione tra la Spagna e i suoi possedimenti nel Nuovo Mondo. Per comprendere appieno la forte connessione tra il colonialismo britannico e la letteratura, furono scrittori influenti come Richard Hakluyt e John Dee (che fu il primo ad usare il termine “Impero Britannico“) ad iniziare a fare pressione perché fosse istituito l’impero d’Inghilterra sfidando l’allora potenza egemone, ovvero la Spagna.

Il passo successivo avviene sotto il regno di Giacomo I, che dopo la fine delle ostilità con gli spagnoli, favorisce i primi insediamenti degli inglesi nel nord America e nelle isole minori dei Caraibi e con la nascita di imprese private, in particolare la compagnia britannica delle Indie orientali, che si occuparono di amministrare le colonie e il commercio estero.

L’impero britannico fondato sulle sue colonie durerà quasi tre secoli, iniziando ad entrare in crisi dopo la conclusione della Prima Guerra Mondiale. Questo processo di dissoluzione causata dalle lotte per l’indipendenza dei popoli sottomessi e dal mutato clima geopolitico mondiale, conoscerà un ulteriore accelerazione dopo il secondo conflitto mondiale.

Rapporto tra letteratura inglese e colonialismo

Il rapporto tra letteratura è colonialismo è stato fin dall’inizio molto intenso, che si trattasse di letteratura da viaggio o di romanzi, questo enorme numero di contributi letterari che raggiunse il suo massimo nell’Ottocento ebbe la duplice funzione di far conoscere, al pubblico inglese, i mondo esotici esplorati e dominati dalla Corona inglese ma anche a perpetrare una denigrazione sistematica dei popoli sottomessi per alimentare il consenso crescente all’impresa coloniale.

Naturalmente non mancarono voci capaci di mostrare, l’altra faccia del colonialismo. Un esempio letterario di sfruttamento dei popoli sottomessi è ravvisabile nel racconto “Lispeth” di Rudyard Kipling, in cui il tema centrale è una bugia; una bugia sull’imperialismo che stravolge la vita di Lispeth, ma anche del popolo sottomesso cui lei appartiene.

Lispeth si era innamorata di un inglese colonizzatore della sua terra, che, però, le aveva fatto promesse da marinaio in quanto lui aveva già una famiglia in Inghilterra e si riteneva comunque superiore e non realmente interessato a Lispeth perchè bianco. Perciò, da un lato questa bugia aiutò Lispeth ad abbandonare la missione dei colonizzatori dove viveva, ma dall’altro lato, al ritorno nel suo villaggio, il suo vero marito si abituò a picchiarla. Il racconto demistifica i falsi intenti morali dei colonizzatori che vogliono convertire i popoli sottomessi; soltanto per poterli meglio sfruttare.

Il ruolo di Henri R. Haggard

Nel corso dell’ultima parte del XIX secolo una delle peculiarità della produzione di artisti e scrittori fu il tentativo di catturare all’interno di immagini, racconti e romanzi le fattezze e le caratteristiche degli abitanti nativi delle colonie. Si dipingevano gli uomini ma anche le donne, come persone amorali e lascive, strumenti di tentazione tesi a
mettere alla prova l’integrità morale del perfetto Englishman, del conquistatore idealizzato dai sudditi britannici come il portatore di quei princìpi europei che non potevano di certo essere abbandonati in quelle terre esotiche e selvagge.

Un esempio di questo tipo di approccio è ravvisabile nelle opere del romanziere Henri Rider Haggard (1856-1925), uno degli autori più amati dell’epoca, creatore della figura del cacciatore bianco Alan Quatermain. Haggard dipinge nel suo romanzo “She” (1885) un gruppo di africani come “un insieme di volti dall’aspetto malvagio. C’era un aspetto di fredda e arcigna crudeltà impresso su di loro che mi disgustava e che in alcuni casi era quasi inquietante nella sua intensità”.

Il fardello dell’uomo bianco

La difficoltà di capire culture diverse creerà anche degli spiacevoli fraintendimenti, come nel caso della poesia “Il fardello dell’uomo bianco” di Kipkling. Pubblicata per la prima volta nel 1899 dalla rivista McClure’s, con il sottotitolo The United States and the Philippine Islands (“gli Stati Uniti e le Filippine”); essa si riferiva soprattutto alle guerre di conquista intraprese dagli Stati Uniti nei confronti delle Filippine e di altre ex-colonie spagnole.

La poesia successivamente venne interpretata come un incitamento all’uomo bianco nel sacrificare persino la propria vita per civilizzare i “barbari” sottomessi dall’Impero britannico. “Il fardello dell’uomo bianco” divenne una sorta di manifesto del colonialismo e dell’imperialismo, un modo diffuso per riferirsi alla necessità di civilizzare i paesi estranei alla tradizione europea, anche attraverso l’uso della forza.

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