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Il delitto della “Dolce Vita”

Il capolavoro di Fellini “La dolce vita” rappresenta una parte dello spaccato romano che caratterizza i “favolosi” Sessanta. Benessere economico, mode e mondanità, ricerca edonistica del piacere, corsa al successo sono tutti ingredienti di quel periodo. E’ in questo clima che matura uno degli omicidi più strani della cronaca italiana.

Il 2 maggio 1963, al quarto piano di un edificio in via Emilia 81, alle spalle di via Veneto, strada iconica della dolce vita romana, viene trovata massacrata da innumerevoli coltellate Christa Wanninger, una bellissima ragazza bionda di 23 anni.

Nata a Monaco di Baviera, questa avvenente ragazza aveva aspirazioni come attrice cinematografica, passione che l’aveva condotta a Roma, ed in particolare a Cinecittà, all’epoca i più importanti e famosi studi cinematografici d’Europa.

Nella capitale romana aveva iniziato a frequentare gli ambienti dell’alta borghesia insieme ad una sua amica austriaca tale Gerda Hoddapp. Quel pomeriggio primaverile di maggio la ragazza si era recata a trovare l’amica Gerda che abitava nel condominio di Via Emilia 81, ma una mano assassina l’aveva aggredita appena uscita dall’ascensore, uccidendola con una ventina di coltellate.

Christa morente riesce a trascinarsi fino alla porta dell’appartamento di Gerda ed a suonare il campanello. Nessuno aprirà quella porta. Le sue grida strazianti richiamano l’attenzione di alcuni condomini che allertano la polizia. Stranamente, Gerda Hoddapp, l’amica del cuore non si accorge di nulla e anzi, quando il palazzo si era riempito di poliziotti, fotografi e curiosi, impiegò diversi minuti ad aprire la porta di ingresso. La sua giustificazione fu che dormiva profondamente nonostante fossero le prime ore del pomeriggio.

Questo strano comportamento naturalmente insospettisce gli inquirenti che la interrogano a lungo. Alcuni testimoni riferirono di aver visto un uomo vestito in blu allontanarsi tranquillamente sulle scale subito dopo l’omicidio. L’“uomo in blu” riempì le pagine dei giornali, che per molti giorni si occuparono di quello strano delitto.

Intanto la Hoddapp viene arrestata per reticenza e favoreggiamento nell’omicidio, le sue giustificazioni non convincono la polizia. Due mesi dopo viene rilasciata in libertà vigilata, mentre le indagini si arenano per mancanza di indizi convincenti. Movente ed autore del delitto rimangono un mistero.

Il delitto della “Dolce Vita” scivola pericolosamente verso uno dei tanti casi insoluti quando poco meno di un anno dopo, il 6 marzo 1964, arriva una telefonata a “Momento Sera“, uno dei giornali minori della capitale. Un uomo chiede al cronista Maurizio Mengoni la ragguardevole somma di 5 milioni di lire per rivelazioni sensazionali sull’omicidio di Christa. Mengoni prende tempo e da un nuovo appuntamento telefonico allo sconosciuto.

Durante la nuova telefonata il misterioso individuo viene intercettato dai Carabinieri ed i militari lo arrestano mentre è ancora nella cabina telefonica in Piazza San Silvestro. L’uomo si chiamava Guido Pierri, di 32 anni, scapolo. Figlio di un cancelliere capo del Tribunale di Roma, lavorava come segretario in un istituto per geometri della capitale, in via Somalia, e nel tempo libero si dilettava con la pittura.

Abita in un alberghetto e gli inquirenti durante una perquisizione vi trovano alcuni diari; in uno di questi si raccontava per filo e per segno un delitto che combacia perfettamente con quello della Wanninger. Inoltre vengono rinvenuti dei rapporti su pedinamenti effettuati dal Pierri a carico di alcune donne, uno di questi sembra corrispondere perfettamente alla giovane tedesca assassinata. Come se non bastassero queste prove indiziarie il Pierri non ha un alibi per il giorno del delitto.

L’uomo però si difende dicendo che il materiale trovato in casa era la base per un romanzo ispirato dalla vicenda e che tutti gli elementi del delitto li aveva raccolti dalla lettura dei giornali. Inoltre nessuno dei testimoni lo riconosce, con certezza, nel misterioso “uomo blu” che era stato visto allontanarsi dal luogo del delitto.

Alla fine dopo che la difesa aveva insinuato che la giovane fosse stata eliminata da agenti del Sifar, il servizio segreto italiano, perché depositaria di segreti scottanti acquisiti attraverso le sue frequentazioni con il mondo della finanza e dell’industria romana.

Al processo il Pierri viene condannato soltanto per il tentativo di estorsione ed anche Greta Hoddapp viene assolta ed immediatamente espulsa dall’Italia. Ancora una volta la soluzione dell’omicidio sembra scivolare su un binario morto.

Una nuova scossa al misterioso caso arriva qualche anno dopo, nel 1973, quando un maresciallo dei Carabinieri in pensione, pubblica un romanzo (Christa) che si ispira al caso. Renzo Mambrini, questo il nome dell’ex carabiniere, è convinto della colpevolezza del Pierri e nel 1974, presenta un esposto-denuncia, elencando una serie di elementi che dovevano provarne la responsabilità nell’omicidio.

Il Mambrini però non avrà la possibilità di vedere le conseguenze della sua denuncia, il 26 novembre di quell’anno, muore in un incidente stradale. Il suo esposto ha il merito di far riaprire le indagini dalla magistratura e nel maggio del 1977, il Pierri viene nuovamente arrestato quale responsabile del delitto in una sentenza istruttoria firmata dal giudice Michele Gallucci. Secondo l’accusa, Pierri aveva ucciso la giovane tedesca durante un raptus.

Il 10 gennaio 1978 l’uomo viene nuovamente assolto per insufficienza di prove. La partita giudiziaria però non è ancora finita, sette anni dopo la vicenda affronta il giudizio di secondo grado, presso la Corte d’Assise d’Appello. Secondo il procuratore generale Ettore Maresca, gli elementi a disposizione provavano che l’assassinio non era avvenuto sul pianerottolo dove fu trovata morta la Wanninger. L’aggressione aveva avuto inizio nell’appartamento della Hoddap per concludersi nel pianerottolo.

Quasi tutta la prima udienza del processo d’appello, celebrata l’8 novembre 1985, fu dedicata all’interrogatorio di Guido Pierri. L’uomo ormai ultra cinquantenne mantiene un comportamento tranquillo e sicuro e risponde a tutte le contestazioni dell’accusa. «Volevo scrivere un romanzo su quel caso – disse – ma pensai di ricavarne dei finti diari per ottenere soldi» («Ansa», 8.11.1985).

Il processo si conclude nel volgere di una settimana con una dichiarazione di non punibilità dell’imputato perché incapace di intendere e di volere al momento del fatto, tesi per altro sostenuta dagli avvocati di parte civile. Nonostante questa sorta di impunibilità, Guido Pierri che all’epoca era diventato un pittore piuttosto affermato, non ne accetta l’esito e ricorre in Cassazione.

La prima sezione penale della Cassazione, presieduta da Pasquale Quaglione, rigettò il ricorso dell’imputato e rese definitiva la sentenza d’Appello. Era il 15 marzo 1988, venticinque anni dopo il delitto, per la giustizia italiana calava la parola fine su questa ambigua vicenda criminosa.

Guido Pierri era riconosciuto come l’autore dell’omicidio, non punibile però perché nel momento della sua esecuzione non era in grado di intendere e di volere. Il mistero però rimaneva fitto e definitivo per quanto riguardava il movente che avrebbe animato l’assassinio e il ruolo effettivamente giocato dall’amica del cuore Greta Hoddapp.

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