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Il funerale di Cesare

I giorni che intercorrono tra l’assassinio di Cesare (le Idi di marzo) e la celebrazione del suo funerale, il 20 dello stesso mese, saranno cruciali per la storia della Repubblica e per la sua trasformazione in Principato. La congiura ordita da Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino che ben presto aveva trovato l’appoggio di numerosi senatori e di rappresentanti della nobilitas romana come Gaio Trebonio, Decimo Giunio Bruto Albino, Lucio Minucio Basilo e Servio Sulpicio Galba, aveva aperto una stagione di grande instabilità politica ed un vuoto di potere che rischiava di trascinare Roma di nuovo in una fase di guerre civili.

Nei giorni che seguirono l’uccisione di Cesare, Marco Antonio uno dei suoi più fedeli alleati, più ancora che Lepido, prese in mano la situazione. Favorì un apparente accordo con i congiurati che, in cambio di una sorta di amnistia, si impegnavano a lasciare Roma, dirigendosi verso le destinazioni ed i ruoli di comando che lo stesso Cesare aveva precedentemente assegnato a diversi di loro.

Nel frattempo con trepidazione non soltanto Marco Antonio, ma altri cesariani e perfino Cleopatra, la regina egiziana amante del defunto dittatore e soggiornante in quel periodo in Roma, attendevano la lettura del testamento di Cesare. Nella sorpresa generale la lettura del testamento che avviene nella casa di Marco Antonio stabilisce che gli eredi di Cesare saranno i suoi tre nipoti per parte delle sorelle: “Caio Ottavio per i tre quarti, Lucio Pinario e Quinto Pedio per il quarto residuo”. Quel Caio Ottavio che diverrà poi Caio Giulio Cesare Ottaviano, il futuro Augusto. Ottaviano viene adottato nella famiglia di Cesare, di fatto conferendo al giovane, che si trova in Illiria, un potere enorme.

Nel testamento non c’è niente per l’amante esotica, la bella e scaltra Cleopatra né per Cesarione, il figlio che ha avuto con Cesare. Al popolo di Roma il defunto dittatore lascia 300 sesterzi per ogni cittadino, una somma ragguardevole, oltre a tutte le proprietà immobiliari che Cesare possedeva al di la del Tevere, comprese gli Horti dove risiede in quel periodo Cleopatra. Il testamento dopo la lettura privata in casa di Antonio, viene letto pubblicamente suscitando una vasta commozione per un lascito così generoso a favore dei Romani.

Antonio si “consola” non soltanto con un riconoscimento politico in suo favore che Cesare fa nel testamento sia pure subordinato a quello di Ottaviano ma, lo stesso giorno dell’omicidio ha prelevato dalle mani della disperata moglie di Cesare, Calpurnia, l’enorme cifra di 4.000 talenti impegnandosi a “custodirla”. Soprattutto Antonio intende sfruttare i funerali dell’amico deceduto per rafforzare il suo potere su Roma e scatenare la riprovazione della plebe contro i congiurati.

Nel frattempo Cleopatra matura la convinzione che Roma non sia più sicura per lei ed il figlio Cesarione e dopo essersi consultata con i suoi consiglieri da ordine di iniziare i preparativi per tornare ad Alessandria d’Egitto. La mattina del 20 marzo, una folla enorme accompagna il feretro di Cesare al Foro dove assisterà all’orazione funebre officiata da Marco Antonio. Dopo il programma prevede che la bara con il corpo dell’ex dittatore sia trasportata al Campo Marzio dove verrà installata la pira funebre.

Nel foro non si accalcano soltanto i cittadini romani ma anche i soldati di Lepido che si apprestavano a partire per la spedizione contro i Parti ed i veterani di Cesare, richiamati e sobillati furbescamente da Antonio. Secondo la ricostruzione che ne fa lo storico statunitense Barry Strauss ci sono degli attori che indossano maschere di cera con le fattezze di Cesare e i suoi abiti trionfali, gesticolano in modo teatrale come vuole la tradizione dei funerali romani, e ricordano i cinque trionfi del condottiero.

Ovviamente nessuno dei congiurati è presente. La tensione emotiva della folla cresce di minuto in minuto. La portantina funebre sulla quale si trova il corpo di Cesare viene portata sui Rostri e collocata all’interno di una piccola costruzione dorata. Sopra viene esposta la toga insanguinata che Cesare indossava al momento dell’assassinio. Con incedere teatrale Antonio sale sui Rostri ed il suo sguardo si rivolge all’immensa folla rumoreggiante.

E’ il tempo della sua orazione funebre. Non abbiamo alcuna fonte coeva del discorso che Antonio pronuncia in quella fresca mattina di marzo. Due storici come Cassio Dione e Appiano ci hanno tramandato le sue parole ricostruite ed interpretate però quasi due secoli dopo i fatti che stiamo narrando. Quello che emerge da questi due storici e da altri autori antichi che affrontano questo cruciale passaggio storico è che più che un’orazione funebre, Antonio farà un grande discorso politico dissimulato sotto gli elogi e le celebrazioni del grande Cesare.

Secondo Appiano avrebbe esordito così: “Non è giusto, concittadini, che l’orazione funebre di un così grande uomo debba essere pronunciata solo da me, ma deve invece farlo l’intero paese”. Antonio, lesse poi, come laudatio funebris, il decreto con cui il Senato aveva conferito a Cesare tutti gli onori umani e divini e con cui gli stessi senatori si erano impegnati a proteggere Cesare.  Poi dopo aver ricordato tutti i trionfi militari del condottiero e quelli che avrebbe potuto compiere se mani assassine non avessero stroncato anzitempo la sua vita, Antonio si avvia alla conclusione, con la parte emotivamente più forte del suo discorso.

“Ma questo padre, questo sommo pontefice, l’inviolabile, l’eroe, ahimè, è morto. È morto non vinto dalla malattia, né disfatto dalla vecchiaia, né ferito lontano dalla sua città in qualche guerra, né rapito all’improvviso da qualche sciagura. Qui, dentro le mura, è stato insidiato l’uomo che aveva felicemente condotto una spedizione in Britannia […] È stato ucciso dai cittadini l’uomo che nessun nemico aveva potuto uccidere […] è stato ucciso dai suoi compagni l’uomo che tante volte aveva loro perdonato. Dove sono finite, o Cesare, la tua bontà e la tua inviolabilità e le leggi? Sei stato assassinato spietatamente dagli amici tu che facesti tante leggi perché nessuno fosse ucciso dai suoi avversari. Giaci scannato in quel Foro per il quale tante volte passasti incoronato; sei caduto trafitto dalle ferite su quella tribuna dalla quale tante volte parlasti al popolo.”

Le sue qualità di oratore, il suo carisma hanno coinvolto la folla che adesso brama vendetta e piange sconsolata la morte di un “padre” piuttosto che quella del dittatore. Il pathos che riuscirà a spargere tra le migliaia di romani intervenuti al funerale di Cesare sarà fonte di ispirazione per Shakespeare nel suo “Giulio Cesare”. A questo punto viene letto nuovamente il testamento di Cesare.

Si tratta della classica “miccia” che fa detonare una situazione altamente esplosiva. Qualcuno da fuoco al luogo intorno al quale sono raccolte le spoglie di Cesare. I soldati faticano a contenere una folla sempre più inferocita e fuori controllo. C’è il timore che il fuoco possa propagarsi alle case ed ai templi vicini. Tutto comincia a degenerare. È Plutarco a descriverci il caos che porta alla cremazione del corpo di Cesare: “Alcuni gridavano di uccidere gli assassini, altri […] svelsero i banchi e i tavoli delle botteghe, e ammucchiatili insieme eressero un immenso rogo; e postovi sopra il cadavere, lo bruciarono lì in mezzo a molti templi e a molti altri luoghi d’asilo e inviolabili”.

I soldati dovranno prodigarsi affinché il fuoco non attacchi gli edifici vicini mettendo in pericolo l’intera città. Molte persone bramose di vendetta si dirigono verso le case dei congiurati con l’intenzione di darle alle fiamme. Gli schiavi ed i gladiatori di Decimo, un ex amico di Cesare e parte attivo nella congiura, riescono a respingere gli assalti alle domus di Bruto, Cassio e di Publio Servilio Casca.

Peggio va alla casa di Lucio Bellieno, un altro dei congiurati, che viene distrutta dalle fiamme. I disordini provocano decine di morti. Nel frattempo dopo alcune ore, la rozza pira su cui è stato bruciato il corpo di Cesare si è spenta ed i liberti del defunto recuperano le poche ossa calcinate per trasportarle nella tomba di famiglia, nel Campo Marzio, insieme a quell’edicola dorata a forma di Tempio di Venere nella quale viene deposta la sua toga insanguinata.

Alla fine di questa lunga giornata fatta di emozioni e violenze, di passione oratoria e morti, Antonio rimane l’incontrastato padrone della città. Con la scusa delle violenze avvenute durante i funerali il giorno dopo fa approvare una legge che vieta di portare armi in città ad esclusione dei legionari. I congiurati capiscono che il loro piano è fallito ed alla spicciolata abbandonano Roma chi ritirandosi nelle proprie ville fuori città, chi sfruttando proprio gli incarichi nelle province ricevuti da Cesare (e confermati con l’amnistia).

Roma ormai è in mano ad Antonio e a Lepido, surclassato dal protagonismo dell’uomo che prenderà il posto di Cesare nel cuore di Cleopatra.

Valmont57

Diversamente giovane, fondatore di Wiki Magazine Italia, (già Scienza & DIntorni), grande divoratore di libri, fumetti e cinema, da sempre appassionato cultore della divulgazione storica e scientifica.

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