lunedì, Settembre 16

Il grande cielo di A.B. Guthrie

Ho sempre amato la storia ed i miti della frontiera americana. D’altra parte ho l’età per la quale da bambini (se maschietti) eravamo irretiti dall’eterno fascino dei cowboy e degli indiani, degli sceriffi e dei prezzolati pistoleri, insomma si cresceva a pane e Tex Willer. La letteratura western fiorente prodotto (e talvolta sottoprodotto) della letteratura americana, caduta quasi nel dimenticatoio in Italia dopo gli anni Settanta, è un campo dove insieme a tante “erbacce” si trovano autentici gioielli che trascendono gli archetipi della letteratura di genere.

E’ il caso de “Il grande cielo”, scritto nel 1947 da A.B. Guthrie (1901-1991), pubblicato per la prima volta nel nostro paese nel 1950 da Mondadori e rispolverato dopo un ingiusto oblio dall’editore Mattioli nel 2014. Questo romanzo che ci immerge in modo potente ed evocativo nella frontiera americana tra il 1820 ed il 1845 è un autentico capolavoro letterario, una grande metafora sullo spirito libertario, erratico ed individualista, anticipatore di classici come On the road, ma è anche una spietata metafora sull’uomo che distrugge sempre ciò che ama. Guthrie rimase sorpreso dal clamoroso successo di pubblico e di critica che accolse il suo romanzo, il primo di una saga di sei opere per la seconda delle quali vinse il Pulitzer.

Uomo schivo e riservato si concedeva pochissimo alle interviste rispondendo sempre ai giornalisti o a chi viaggiava per incontrarlo e fare una foto con lui: «Ho scritto un libro, sono mica una cartolina o un souvenir». Il grande cielo è percorso da temi universali quali l’amicizia, il rapporto con una natura quasi incontaminata che i frontier men amano profondamente mentre però si impegnano per distruggerla con una caccia insensata e sterminatrice e la nostalgia per un tempo che si sta perdendo, anticamera del dolore e dello straniamento.

Invecchiando Guthrie si ritirò nella piccola cittadina di Missoula, nel Montana, dove lo conoscevano e chiamavano soltanto come «il famoso ubriacone». Perché, come scrive Guthrie, «invecchiando, cominciava a sentire le cose in modo diverso. Gli piaceva ancora vedere le colline e percorrere i fiumi, ma la metà del piacere era nel ricordo. Dopo che c’eri stato, un luogo non era più soltanto un posto qualsiasi. Si aggiungevano il tempo che ci avevi passato, le cose che avevi pensato, le persone con cui eri stato. C’era un tempo iniziale e il posto in sé, e poi c’erano lo stesso luogo, il tempo e l’uomo che eri stato, tutti mescolati insieme, uno con l’altro».

Da questo autentico capolavoro letterario che nobilita la letteratura western è stato tratto il celebre ed omonimo film del 1952, diretto da Howard Hawks con, tra gli interpreti, Kirk Douglas,  Arthur Hunnicutt ed Elizabeth Threatt, alla sua prima ed ultima esperienza cinematografica.

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