lunedì, Settembre 16

Il James Webb Space Telescope alla ricerca dei buchi neri primordiali

Il ciclo di vita operativo del James Webb Space Telescope durerà almeno 8-10 anni con possibile prolungamento, e saranno 5 anni molto intensi. Tra le tante attività, quella della ricerca sui buchi neri primordiali sarà una delle più importanti per comprendere la formazione di quelli super massicci al centro delle galassie.

Il James Webb Space Telescope (JWST) è lo strumento scientifico più atteso dalla comunità astronomica internazionale. I progettisti lo hanno concepito per poter svolgere un’ampia gamma di studi e ricerche. Il suo range osservativo, che va da 0.6 a 28 micrometri, gli permette di carpire informazioni dall’infrarosso alla luce visibile e quando all’inizio dell’estate sarà pienamente operativo, incomincerà la sua attività studiando: la formazione delle prime stelle e delle prime galassie, indagherà sulla formazione dei pianeti, cercherà nuovi esopianeti, studierà i confini del sistema solare, darà la caccia alle sfuggenti materia ed energia oscura.

Tra le molte attività sopracitate, il JWST contribuirà anche alla ricerca sui buchi neri, e in particolare andrà a sondare i meandri dello spazio, alla ricerca di tracce dei così detti buchi neri primordiali, ossia buchi neri apparsi quando l’universo era molto giovane e formatisi – si pensa-    dal collasso delle prime stelle.

I buchi neri da sempre godono della fama di oggetti invisibili e misteriosi la cui esistenza può essere provata solo matematicamente. Questo era vero fin quando l’affinamento della tecnologia non ci ha permesso di fotografarli e studiarli in tutta la loro complessità.

Ovviamente, essendo i buchi neri oggetti composti solo da spazio-tempo la cui densità infinità impedisce persino alla luce di sfuggire dalla loro superficie (il famoso orizzonte degli eventi), quello che abbiamo fotografato è il disco che li circonda come un immenso hula hoop, composto di gas talmente incandescente da essere ionizzato e quindi luminosissimo.

Più è grande il buco nero al suo interno e più sarà grande il disco di accrescimento che lo circonda. Questo ha permesso di immortalare oggetti lontanissimi come il buco nero che si trova al centro della Via Lattea e quello al centro della galassia M87, rispettivamente di 4,1 milioni e 6,6 miliardi di masse solari.

La straordinaria fotografia del buco nero centrale di M87 – Credit: Event Horizon Telescope

Entrambi questi “mostri” cosmici sono classificati come Buchi Neri Supermassicci e gli astrofisici sono ormai propensi a ritenere che la quasi totalità delle grandi galassie abbia al proprio centro uno di questi enormi oggetti a svolgere il ruolo di ancora gravitazionale tramite la loro imponente massa.

Ma come si sono formati i buchi neri centrali delle grandi galassie e a quando risalgono i primi buchi neri di cui abbiamo notizia (i buchi neri primordiali per l’appunto)? A queste e ad altre domande è chiamato a rispondere il James Webb attraverso i suoi strumenti d’indagine, come è stato spiegato da Roberto Maiolino, professore di astrofisica dell’università di Cambridge e membro del Near-Infrared Spectrometer (NIRSpec) instrument science team, in una recente delucidazione rilasciata alla NASA per il suo Blog.

Una delle più interessanti aree di scoperta che Webb sta per aprire è la ricerca di buchi neri primordiali nell’universo primordiale. Questi sono i semi dei buchi neri molto più massicci che gli astronomi hanno trovato nei nuclei galattici. La maggior parte (probabilmente tutte) le galassie ospitano buchi neri al centro, con masse che vanno da milioni a miliardi di volte la massa del nostro Sole. Questi buchi neri supermassicci sono diventati così grandi sia ingoiando la materia intorno a loro sia attraverso la fusione di buchi neri più piccoli.

Un’interessante scoperta recente è stata quella dei buchi neri ipermassicci, con masse di diversi miliardi di masse solari, già esistenti quando l’universo aveva solo circa 700 milioni di anni, una piccola frazione della sua attuale età di 13,8 miliardi di anni. Questo è un risultato sconcertante, poiché, secondo le teorie standard, un universo così giovane, non avrebbe avuto abbastanza tempo per far crescere buchi neri tanto grandi.

Schema dell’espansione dell’universo dal Big Bang fino ai giorni nostri.  Credit: NASA/WMAP Science Team

Una possibilità è che i buchi neri, risultanti dalla morte della prima generazione di stelle nell’universo primordiale, abbiano accumulato materiale a velocità eccezionalmente elevate. Un altro scenario è che nubi di gas primordiali incontaminate, non ancora arricchite da elementi chimici più pesanti dell’elio, potrebbero essere collassate direttamente per formare un buco nero con una massa di poche centinaia di migliaia di masse solari, e successivamente la materia si sarebbe accumulata, accrescendo nei buchi neri ipermassicci osservati in epoche successive.

Infine, densi ammassi di stelle nucleari al centro delle piccole galassie potrebbero aver prodotto semi di buchi neri di massa intermedia, tramite collisioni stellari o la fusione di buchi neri di massa stellare, per poi diventare molto più massicci tramite l’accrescimento“.

Webb sta per aprire uno spazio di scoperta completamente nuovo in quest’area. È possibile che i primi semi di buco nero si siano formati originariamente nell'”universo del bambino“, nel giro di pochi milioni di anni dopo il big bang. Webb è la “macchina del tempo” perfetta per conoscere questi oggetti primordiali. La sua eccezionale sensibilità rende Webb in grado di rilevare galassie estremamente lontane e, a causa del tempo necessario alla luce emessa dalle galassie per viaggiare verso di noi, le vedremo come erano in un remoto passato.

Lo strumento NIRSpec di Webb è particolarmente adatto per identificare semi primordiali di buchi neri. I miei colleghi del NIRSpec Instrument Science Team ed io cercheremo le loro firme durante le fasi “attive”, quando divorano voracemente materia e crescono rapidamente. In queste fasi il materiale che li circonda diventa estremamente caldo e luminoso e ionizza gli atomi nell’ambiente circostante e nelle galassie che li ospitano. NIRSpec disperderà la luce da questi sistemi in spettri, o “arcobaleno”. L’arcobaleno di semi attivi di buchi neri sarà caratterizzato da specifiche “impronte digitali”, caratteristiche di atomi altamente ionizzati. NIRSpec misurerà anche la velocità del gas in orbita in prossimità di questi buchi neri primordiali. I buchi neri più piccoli saranno caratterizzati da velocità orbitali inferiori.”

Illustrazione che mostra le popolazioni di buchi neri conosciuti (grandi punti neri) e i candidati progenitori dei buchi neri nell’universo primordiale (regioni ombreggiate). Credit: Roberto Maiolino, Università di Cambridge.

Conclusioni

Non sappiamo molto dei primi 700 milioni di anni di vita dell’universo. Non sappiamo molto sul periodo dell’universo in cui l’idrogeno neutro si è re-ionizzato o su come la struttura a larga scala si sia formata, ne di come si siano accese le prime stelle e galassie e se anche i buchi neri primordiali siano nati dalla detonazione delle prime super nove. Insomma, non sappiamo davvero molte cose! Questo continuerà a spingerci a creare strumenti scientifici sempre più sofisticati come il JWST che ci aiuteranno a saziare la nostra fame di conoscenza.

Per leggere l’intervista originale: https://blogs.nasa.gov/webb/

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