
Eugene “Gene” Hackman muore il 18 febbraio del 2025.
La prima volta che ho incontrato il suo volto al cinema fu quando da adolescente vidi per la prima volta “The Royal Tenembaums” (Wes Anderson, 2001).
Nel 2017 poi Gene Hackman mi compare davanti agli occhi, nel grande schermo del “Cinema sotto le stelle” di Bologna, in “Frankenstein Junior” (Mel Brooks, 1974).
Qualche anno dopo, nel 2023, sempre in piazza maggiore dove si svolge il festival, viene proiettato un altro film del 1974, “La conversazione” di Francis Ford Coppola.
Mi viene in mente che un illuminato Paolo Noto, professore di analisi del film all’università di Bologna, consigliava caldamente la visione di questo film, e devo ammettere che negli anni la mia impressione è parecchio cambiata. Proviamo a raccontare questa storia con ordine.
The Royal Tenembaums

The Royal Tenembaums è il primo film in cui Wes Anderson sperimenta e applica quella che diventerà poi (soprattutto con Le avventure acquatiche di steve zissou, 2004, e poi con Grand budapest Hotel, 2007) la sua cifra stilistica.
Il modo di raccontare e mettere in scena la narrazione attraversso le simmetrie e le palette di colori pastello. In I Tenenbaum si vedono già le prime accelerazioni in questo senso (vedi padre con figli in tuta rossa coordinata).
In questo film Gene Hackman ha un ruolo da principale formidabile, esuberante, comico e spericolato. Nel film tra l’altro recitano anche Ben Stiller e Owen Wilson, che evidentemente hanno firmato nello stesso anno un sodalizio da co-protagonisti grazie a Zoolander, Ben Stiller (2001).
Royal Tenembaum, interpretato da Hackman, è frizzante, spigliato, decadente. Il suo è un personaggio controverso e vitale, anche se mosso da emozioni come la paura e il rimorso. Un ruolo comico perfetto per uno come lui, che è stato in effetti un attore dalle mille risorse.
Adesso facciamo un grosso passo indietro.
Frankenstein Junior
Frankenstein Junior (Mel Brooks, 1974) è un film iconico che non ha bisogno di presentazioni.
Una delle parodie (per non dire La parodia) più celebri del cinema del ‘900, ha portato al cinema un apparato narrativo inimitabile, uno spartiacque teorico e creativo per le generazioni successive.
Mel Brooks è stato un pioniere di un cinema comico del grottesco e del surreale imparagonabile in quegli anni. Un cinema a cui un’opera come la trilogia de Una pallottola spuntata, David Zucker (1988, 1991, 1994) che ha messo un timbro sulle regole del gioco, deve parecchio.
Anche il filone dei Monty Python e tanto cinema italiano lo tengono come punto di riferimento (Mel Brooks tra l’altro recita in un paio di film diretti da Ezio Greggio)
In Frankenstein Junior, Hackman recita un cameo in cui interpreta un anziano non vedente che vive da solo in mezzo ad una foresta, e chiede a dio di mandargli un viandante. Il viandante arriva, ma è il mostro del dottor Frankenstin, costretto in pochi minuti a scappare via per dell’impaccio dell’anziano che non sembra sapere più avere a che fare con il prossimo.

La scena è molto divertente ed è tra le numerose felici intuizioni di un film invecchiato benissimo che vale la pena guardare, per la prima volta, ancora oggi. Nello stesso anno di questo cameo, Hackman è però protagonista di un altro film, La conversazione di Francis ford coppola, del 1974. Torniamo adesso alla nostra storia.
La Conversazione
Da quello che ricordavo di aver visto durante gli anni di università, La conversazione è un film cupo, un simil noir con influenze della nouvelle vague francese, la pellicola sgranata e disturbata, luoghi affollati e asfissianti come pure gli spazi angusti, le ombre in scena e le ombre metaforiche.
Lo ricordavo un film maniacale, quasi patologico.
Il protagonista Harry Caul è fondamentalmente un inetto, inabile, vittima del suo lavoro che lo porta ad una sofferenza patetica, che sfocerà poi in paranoie e disturbi riconducibili all’ossessione. Lo spettatore percepisce dalla prima inquadratura questa atmosfera malsana, un campo lunghissimo dall’alto che in uno zoom molto lento in avanti si districa tra passanti frenetici in una piazza di San Francisco che brulica come un formicaio.
Verranno finalmente raggiunti dalla camera un uomo e una donna che stanno conversando. Interessante da subito che la telecamera (e quindi lo spettatore) non può fare altro che spiare.

Lo sguardo e l’ascolto
Spiare è la parola chiave di quasi due ore di film.
Harry Caul è un professionista delle intercettazioni. Il suo lavoro consiste nel coordinare una squadra di microfonisti che, come dei terroristi in procinto di commettere un attentato, si confondono tra la gente comune o si nascondono sui palazzi e puntano (non fucili) ma microfoni di precisione verso la conversazione da registrare.
Harry poi nel suo laboratorio lavorerà sulle registrazioni da varie postazioni e le farà confluire in un’unica chiara registrazione, pulita da tutti i rumori ambientali, isolandola.
Il “conto alla rovescia” che aiuta a creare tensione è proprio questo lavoro meticoloso su questi nastri, risolti solo alla fine del film. Spiare diventa quindi un’esperienza tanto visiva tanto uditiva.
Il film è saldamente costruito su queste dicotomie: guardato/ascoltato, sguardo/ascolto. Capolavoro della storia del cinema, mi è rimasto sepolto da qualche parte nella memoria fin quando non è riemerso durante quella visione del 2023. In quella occasione non solo però ho ricordato, ho anche cambiato drasticamente idea.
Io quella sera, in piazza maggiore a Bologna guardando la conversazione, ho riso parecchio. Non è esattamente un film comico. Ma posso spiegare.
Dov’è la comicità

Harry Caul è esasperato.
Iper-reagisce in negativo a qualunque stimolo ricevuto, dalle domande dei colleghi alle attenzioni della amata, al rapporto con questa missione lavorativa e con il committente.
Vive un inesorabile crollo emotivo e la lucidità viene sempre meno, come tagliare Scarface in due e tenere solo la seconda parte.
Non c’è potere conquistato ne fama ne ricchezza, c’è solo questo viaggio implacabile verso la disperazione, la resa ad un nemico immaginario, la sfiducia nei confronti degli altri, una condanna autoimposta e autoinflitta senza nessuna ragione a motivarla.
E questa cosa fa ridere, come fa ridere Don Quichotte che lotta contro i mulini a vento, è il delirio di un uomo che lo porta all’auto-isolamento e al non poter nemmeno più fidarsi di sé stesso. Mente razionale e precisa che però adesso sembra tradirsi, autosabotarsi.
Persino gli scherzi più innocenti e le attenzioni più ingenue peggiorano la situazione mentale di Harry, le dimostrazioni di affetto diventano demoniache e pericolose. Harry Caul, il professionista delle intercettazioni che impazzisce e distrugge il suo appartamento in preda ad una crisi, stacca il pavimento e fa buchi nei muri, stacca il telefono e si blinda dietro la porta di casa, cercando qualcosa che non c’è.
Crede di essere spiato, ed essendo il migliore sa che non ci sono limiti alla creatività in un lavoro come quello. La sua sanità mentale esalerà l’ultimo respiro in un sassofono, che suonerà seduto su un pavimento senza mattonelle, mentre scorrono i titoli di coda.
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