lunedì, Settembre 16

La “classe operaia” nell’Età di Mezzo

Come era organizzata la classe operaia nel Medioevo? Quante ore lavorava mediamente? In che condizioni viveva e quanto guadagnava? Senza alcuna pretesa di esaustività proveremo a dare qualche risposta in questo articolo. Un’ultima osservazione in premessa, ovviamente ci riferiamo alla “classe operaia” non nel senso marxista del termine, pure essendo presenti alcuni degli elementi che caratterizzeranno la descrizione marxiana della classe lavoratrice.

Non essendo presenti ancora le industrie, nell’accezione moderna del termine, gli operai medievali erano impiegati prevalentemente nelle attività artigianali, la cui importanza per l’economia era ampiamente riconosciuta fin dall’epoca carolingia. Nel capitolare De Villis, Carlomagno statuisce: “Che ogni intendente abbia nel suo distretto dei bravi operai, e cioè: lavoratori del ferro, dell’oro e dell’argento; dei ciabattini, tornitori, carpentieri, fabbricanti di scudi, pescatori, uccellatori; fabbricanti di sapone […]; altri operai che sappiano far bene le reti, sia per la caccia sia per la pesca; o per catturare gli uccelli, e altri operai ancora che sarebbe troppo lungo enumerare”.

Il luogo di lavoro

Nel Basso Medioevo, nelle città, gli artigiani lavorano al pianterreno delle case, la stanza che affaccia sulla strada è riservata alla produzione e la merce prodotta spesso viene esposta sulla finestra, di modo che i passanti possono osservare i prodotti e allo stesso modo il processo di lavorazione (la porta rimaneva infatti aperta per l’intero orario di lavoro).

Alcuni mestieri particolarmente inquinanti sono costretti ad operare ai margini della città.

L’organizzazione del lavoro

Alla base della piramide c’è l’apprendista. Le famiglie versano soldi ai maestri affinché prendano nei loro laboratori o officine giovani e giovanissimi come apprendisti, in modo che essi possano con il tempo imparare il mestiere. Appena firmato il contratto di apprendistato questi giovani devono assoluta obbedienza al maestro e sono ovviamente i lavoratori più sfruttati in assoluto.

Un caso esemplare è quello che risulta dal contratto di apprendistato, sottoscritto il 2 maggio 1254 che lega per dieci anni, Jeannot, figlio di Ciceris de Rivalta, a Jean de Tournai, tessitore a Genova:

Sbrigherà tutti i lavori che potrà fare in modo conveniente, in casa o all’esterno della casa, e veglierà sulle tue cose e sulle cose estranee che sono nella tua casa e sotto il tuo potere; non lascerà il tuo servizio, non si sposerà, né si fidanzerà prima che sia scaduto il termine del contratto… [Jean de Tournai, da parte sua, s’impegna a tenere con sé] il citato Jeannot, fino al summenzionato termine, insegnandogli o facendogli apprendere a tessere le stoffe, fornendogli vestiti e nutrimento sufficienti, senza indurlo a fare ciò che sarebbe al di sopra delle sue forze, e vegliando o facendo vegliare su di lui, valido o invalido, sotto la citata pena, per l’obbligo dei suoi beni“.

Raramente un maestro può formare più di uno o due apprendisti contemporaneamente. Tra l’apprendista e il maestro si colloca la figura dell’operaio, che il Livre des métiers (Libro dei mestieri), redatto verso il 1268 dal  prevosto di Parigi Étienne Boileau, definisce “garzoni“.

Il garzone può essere assunto a giornata, a settimana o limitatamente alla durata di una specifica fase produttiva. Questo non significa che a volte un operaio possa rimanere alle dipendenze di un maestro per un tempo significativamente lungo, che oggi incaselleremmo nella definizione di un contratto a tempo indeterminato. Molti di questi garzoni si spostano di luogo in luogo, alla ricerca del posto di lavoro. È il caso di Jean Piot, un giovane rigattiere, che al compimento del diciottesimo anno, lascia Parigi, la città dove è nato, si trasferisce a Bruges, dove lavora per un certo periodo, quindi trasloca ad Arras, dove si sposa. In seguito, torna a Parigi.

I maestri

All’apice della competenza professionale ci sono i maestri, che grossolanamente possiamo suddividere tra chi è di fatto oltre che un operaio specializzato, un imprenditore autonomo e chi invece opera alle dipendenze di altri, più facoltosi e importanti imprenditori. Con la fine del Medioevo inizia a chiudersi la possibilità di accedere alla qualifica di Maestro.

Per compiere questo difficile ma stimolante passaggio, nei secoli XIV e XV si chiede ai candidati a diventare maestro il superamento di un esame, davanti ad una giuria formata dai membri eccellenti di una corporazione. Inoltre dovrà presentare agli esaminatori un “capolavoro” del mestiere per il quale si sta candidando alla dignità di maestro. Per ottenere la qualifica di maestro le insidie non finiscono qui, superato l’esame occorre una sostanziosa “tassa di iscrizione” alla corporazione e il relativo banchetto. Con il passare degli anni la dignità di maestro è sempre più riservata ai figli dei maestri, limitando fortemente la mobilità sociale dei garzoni.

La questione salariale

Durante i periodi di tranquillità, quando guerre ed epidemie danno respiro alla società medievale, i salari rimangono stabili e la capacità di “contrattazione” degli operai di fatto è quasi assente. Durante le crisi, come nel caso della grande epidemia di peste nera, la rarefazione della manodopera conferisce ai superstiti un potere di contrattazione senza precedenti.

Giovanni il Buono deve adottare dei provvedimenti come la grande ordinanza del 1351 che decreta che i salari non devono superare di un terzo il saggio praticato prima della peste. Questa come altre ordinanze però non otterranno i risultati sperati. La regolamentazione salariale che l’ordinanza del 1351 cerca di imporre, per gli artigiani edili, la soglia di 32 denari in estate e 26 denari in inverno, se si tratta di maestri, e di 20 denari in estate e 16 in inverno per gli operai.

La scarsità di lavoratori, decimati dalla peste, però è tale, che nel biennio 1352-53, un maestro percepisce tra 60 e 96 denari, un aiutante tra 32 e 42 denari. Inoltre gli operai pretendono di essere pagati a cottimo e non più a giornata.

L’orario di lavoro

Gli Statuti dell’epoca rispetto alla durata della giornata lavorativa sono chiari soltanto per il divieto di lavoro notturno, che per altro prevedeva diverse eccezioni come per il mestiere dei fornai, oppure a Venezia per i forni delle vetrerie che dovevano rimanere accesi ininterrottamente. A questo proposito una lettera di remissione del 1476 inerente una vetreria di Bichat, nel Poitou, segnala che François Simonneau, nel 1468, quando ha 13 o 14 anni, è impiegato come garzone in questa vetreria come addetto al forno di giorno e di notte.

In generale il lavoro doveva cominciare al sorgere del sole e terminare durante il charnage ai vespri, cioè verso le sei di sera, e durante la “quaresima” a compieta, ovvero verso le nove di sera. Il “charnage” era la parte dell’anno in cui le giornate sono corte, dal giorno di San Remigio (9 ottobre) alla “domenica dei tizzoni” (prima domenica di Quaresima). Questa indicazione di massima variava poi in base ai singoli mestieri.

D’inverno i follatori, i tessitori di panno e di tela lavorano dalle 6 di mattina alle 5 di pomeriggio, e da Pasqua alla festa di san Remigio dalle 5 di mattina alle 7 di sera. Le filatrici di seta sono più sfortunate poiché d’estate la loro giornata inizia alle 4 di mattina (alle 5 d’inverno) e termina alle 8 di sera. La variabilità dell’orario di lavoro non dipende però soltanto dalla stagionalità o dalla tipologia di mestiere. I garzoni chiedono con sempre maggiore insistenza l’allungamento dell’orario di lavoro.

La cosa può sembrare paradossale visto che stiamo comunque ragionando di orari di lavoro massacranti, ma estendere la durata della giornata lavorativa per un operaio significava guadagnare di più. Un’ordinanza di Arras datata 1315 segnala che una commissione comprendente i delegati sia dei maestri tessitori sia dei garzoni follatori consente a questi ultimi, su loro richiesta, di lavorare “in giornate più lunghe” affinché possano guadagnare salari “più alti”.

Datori di lavoro e maestri cercano di proteggersi da un improprio accorciamento della giornata lavorativa e il primo “badge” della storia si realizza attraverso il suono delle campane. Nel 1335, Filippo VI di Valois permette al sindaco e agli scabini di Amiens di far suonare una campana speciale per indicare “quando gli operai della suddetta città e della sua periferia debbano andare in ogni giornata lavorativa alla loro opera di mattina […] e anche la sera, quando devono lasciare il lavoro”. Tutto ciò premesso, d’estate la giornata lavorativa può raggiungere le 16 o 17 ore, mentre d’inverno non si superano le undici ore di lavoro.

La pausa pranzo

Ovviamente giornate lavorative così lunghe e massacranti prevedevano alcune pause per mangiare e per tirare il fiato. Nel 1384, lo statuto dei cimatori tessili concede loro una mezz’ora d’inverno, all’inizio della giornata, “per il bere del mattino”, un’ora per la colazione alle 9 di mattina e un’ora per mangiare di pomeriggio.

Fonti:

alcune voci di Wikipedia

Verdon, Jean. La vita quotidiana ai tempi del Medioevo

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