Storia

La guerra del Peloponneso – prima parte

La guerra del Peloponneso fu un conflitto quasi trentennale, dal 431 al 404 a.e.v., che vide contrapposte le due più importanti polis greche, Atene e Sparta, ciascuna con la propria coalizione. Le cause di questo conflitto interminabile sono molteplici, una di queste è da ricercarsi nella volontà espansionista di Atene, guidata dall’ambizioso Pericle (495-429 a.e.v.).

Il trattato del 445

Le tensioni tra i due schieramenti si erano composte in un trattato trentennale firmato dalla Lega di Delo guidata da Atene e la Lega peloponnesiaca sotto l’egida di Sparta nel 445 che suddivideva le rispettive aree d’influenza e stabiliva il diritto di ogni polis di aderire liberamente ad una delle due coalizioni. Per mantenere saldo il regime democratico ateniese evitandone le frequente lacerazioni interne e perseguire il disegno di leadership sull’intero territorio greco, Atene però ruppe il trattato unilateralmente dando il via alle ostilità.

Il casus belli fu colto ad arte da Pericle che accettò la richiesta di aiuto di Corcira (l’attuale Corfù) impegnata in un conflitto contro Corinto. Quando quest’ultima, la polis più influente dopo Sparta della lega peloponnesiaca, si trovò di fronte all’isola di Corcira una flotta ateniese fu costretta a battere in ritirata. L’episodio innescò un aumento della tensione tra i due schieramenti ma fu tre anni dopo, che una gratuita provocazione ateniese fece deflagrare definitivamente il conflitto.

La provocazione di Pericle

Pericle impose un embargo alla città di Megara, attraverso il cosiddetto Decreto Megarese: con tale atto Atene escludeva i commercianti di Megara dal mercato ateniese e degli alleati, devastandone l’economia e allo stesso tempo violando apertamente le clausole della pace dei trent’anni senza alcuna giustificazione.

Sparta però, consapevole delle difficoltà logistiche che presentava una guerra contro la rivale, esitava e soltanto nell’inverno del 432-431 a.e.v. lanciò un ultimatum ad Atene che Pericle fece in modo fosse respinto. Nonostante questo palese atto di sfida i lacedemoni (così erano chiamati gli abitanti di Sparta) esitarono ancora prima di ordinare l’invasione dell’Attica.

Tebe rompe gli indugi

Ci penserà Tebe a spingere definitivamente la situazione verso il conflitto armato, attaccando con circa 300 uomini, nel marzo del 431 a.e.v. la filoateniese Platea. L’attacco si risolse in un clamoroso insuccesso e nel massacro di una parte consistente del contingente tebano. A questo punto Sparta non poté esimersi dall’intervenire attivamente nel conflitto, e spinse l’esercito peloponnesiaco forte di oltre 24.000 opliti nell’istmo di Corinto. La Lega Tebana, alleata dei lacedemoni metteva in campo altri 10.000 uomini, grazie ai rinforzi provenienti dalla Focide e dalla Locride.

Le forze terrestri di Sparta e Tebe erano enormemente superiori a quelle di Atene (13.000 opliti e 1.000 cavalieri) che però poteva contare su una netta supremazia navale. La strategia era piuttosto chiara, la Lega Peloponnesiaca si riprometteva di invadere l’Attica e metterla a ferro e fuoco, considerando improbabile riuscire a spingere gli ateniesi in una grande battaglia campale risolutiva.

Gli ateniesi, e Pericle in particolare, puntavano invece a far muovere a vuoto gli avversari rimanendo protetti dalle Lunghe Mura, dopo aver evacuato l’Attica, per poi colpirli con operazioni anfibie mediante la flotta, che poteva portare la guerra fin nel profondo meridione peloponnesiaco e incidere altrettanto duramente sull’economia rurale avversaria.

La “fortezza” Atene

Pericle era fiducioso che Atene e il Pireo che formavano un unico complesso protetto da mura, un’immensa fortezza nel cuore dell’Attica, fosse in grado di accogliere tutti gli abitanti del territorio. Questa enorme fortezza chiamata Lunghe Mura avrebbe accolto tutti i profughi dell’Attica scacciati dalle devastazioni spartane. I necessari rifornimenti di viveri sarebbero giunti via mare, grazie alla potente flotta ateniese.

Il vecchio re di Sparta, Archidamo II era ben consapevole di queste difficoltà e per questo aveva cercato fino all’ultimo di convincere il Consiglio della Lega Peloponnesiaca a non precipitare verso la guerra, ma la sua posizione si ritrovò in minoranza. Dopo un mese di devastazioni di uliveti e campi di grano, senza alcun contatto con il nemico, Archidamo II fu obbligato a ritirarsi per la scarsezza di vettovagliamento di un esercito così numeroso.

Guerra nel Peloponneso

Le azioni militari ateniesi furono molto più incisive. Una flotta imponente formata da 150 navi (100 di Atene e 50 di Corcira) diede vita ad una serie di incursioni lungo le coste del Peloponneso e nel golfo di Corinto danneggiando gravemente l’economia di molti villaggi e conquistando la cittadina di Egina. Lo stesso Pericle guidò personalmente un’azione nella Megaride, in autunno, mentre i peloponnesiaci erano occupati con la vendemmia e i raccolti.

Il sovraffollamento di Atene

Le fosche previsioni del vecchio re di Sparta avevano trovato una dura conferma. La strategia di Pericle di incoraggiare la fuga degli abitanti dell’Attica, accogliendoli in Atene, fece lievitare la popolazione ad oltre 200.000 persone che trovarono sistemazioni di fortuna che andavano da capanne improvvisate ai piedi dell’Acropoli ai santuari, dalle torrette lungo le mura agli spazi aperti.

La calura soffocante della città, situata in una conca ad 8 km dal mare metteva a dura prova la fibra della popolazione. La scarsità di acqua dolce, inoltre, rendeva difficoltoso lo smaltimento dei liquami per l’assenza di un fiume che attraversasse la città e ne permettesse l’espulsione in mare. La situazione igienica diventava sempre più precaria, giorno dopo giorno. Nondimeno il primo anno di guerra questa strategia aveva portato i frutti sperati.

L’anno seguente, nel 430 a.e.v., gli spartani invasero nuovamente l’Attica mentre Pericle partiva con la flotta e quattromila opliti alla conquista di Epidauro. Un nuovo ed imprevedibile nemico però sconvolgerà i loro piani.

Profughi e peste

Nel maggio di quell’anno però un nuovo, temibile e letale giocatore diverrà macabro protagonista della guerra civile greca. In seguito alle devastazioni delle campagne dell’Attica da parte degli Spartani, un’enorme massa di profughi iniziò a cercare scampo in Atene. Ben presto iniziarono a svilupparsi i primi casi di un morbo dall’alta letalità.

E quanto più gli ateniesi si ammassavano in uno spazio relativamente ristretto, tanto più marcata era la differenza che l’azione della pestilenza esercitava su di essi rispetto agli invasori della Lega del Peloponneso guidati da re spartano Archidamo III, in grado di muoversi sparpagliati e di nutrirsi saccheggiando le campagne dell’Attica.

Così scrive Tucidide, la nostra principale fonte sulle guerre del Peloponneso:

Per tutto il tempo che i Peloponnesi rimasero nell’Attica e gli ateniesi fecero la spedizione navale, l’epidemia infieriva sugli ateniesi in città e nell’esercito; tanto che si disse che i Peloponnesi, per paura dell’epidemia – poiché venivano informati dai disertori, che essa aveva fatto la sua comparsa nella città e nello stesso tempo si accorgevano dei funerali – si fossero affrettati a lasciare l’Attica. La durata di questa invasione fu più lunga, e devastarono tutto il paese. Si trattennero infatti nell’Attica circa quaranta giorni.

Le cause del morbo

La lunga campagna militare degli spartani fu resa possibile dall’infuriare della peste in Atene, che lambì solo molto marginalmente altre zone contigue della città e non interessò l’esercito invasore. Di sicuro l’ammassamento sociale verificatosi entro le mura ateniesi e, al contempo, il distanziamento rispetto a tutto il resto della popolazione greca, devono aver contribuito a limitare la diffusione dell’epidemia solo all’interno della città, dove la micidiale miscela di caldo torrido, acque stagnanti, insetti, cibi andati a male, fogne intasate, carogne abbandonate in strada e promiscuità degli abitanti ha costituito l’habitat naturale del morbo.

La provenienza del patogeno

Ma da dove proveniva la peste? Sempre secondo Tucidide il morbo era stato importato” dall’Africa. Si tratta di un’ipotesi verosimile, in quegli anni, infatti, Atene era il centro di un complesso e sostenuto mondo di scambi e traffici commerciali che aveva nelle basi africane e nell’Asia Minore i principali punti di riferimento.

I collegamenti tra il porto del Pireo e le foci del Nilo erano frequenti e intensi, ed è altamente probabile che da più d’una nave ormeggiata nel grande porto di Atene sia arrivato l’ospite, uomo o animale, portatore dell’agente patogeno.

Ma era davvero peste?

Ma si trattò veramente di peste, la malattia che infierì duramente in Atene nell’anno 430 avanti l’era volgare? Oggi siamo certi di una cosa, che in realtà non si trattava di peste. Dai sintomi descritti da Tucidide, anch’esso colpito da questo morbo, si trattava di una malattia che aggrediva sia l’apparato respiratorio che quello gastrointestinale.

Questo fa pensare che si trattasse di tifo ed è questa l’opinione prevalente attualmente tra gli studiosi circa la natura dell’epidemia che sconvolse Atene. La tesi è supportata dai risultati dello studio del DNA su alcuni denti rinvenuti in una fossa comune scavata negli anni Novanta del XX secolo e contenente i corpi di duecentoquaranta persone, di cui una decina bambini, accanto al cimitero del Ceramico di Atene.

Tifo o febbre emorragica?

Per contro alcune descrizioni di Tucidide mettono in dubbio la tesi legata al tifo. Lo storico greco infatti parla esplicitamente della scomparsa di tutti gli uccelli e di altri animali, come i cani randagi, che si erano cibati di cadaveri infetti. Ora è noto che gli animali necrofori non subiscono le infezioni da tifo. Inoltre Tucidide afferma che si ammalavano anche coloro che cercavano di prendersi cura dei malati.

Ed ecco che spunta la tesi che invece che tifo possa essersi trattato di una qualche febbre emorragica, magari precorritrice dell’Ebola, considerando che proveniva dall’Africa. Spesso le febbri emorragiche virali provocano la morte entro l’ottavo giorno, ed è quello che sembra evincersi dal resoconto di Tucidide. A questa ipotesi farebbe pensare anche la descrizione dei sintomi contenuta in De rerum natura scritto da Tito Lucrezio Caro, vissuto circa tre secoli dopo quel drammatico 430 a.e.v.

Il dramma degli ateniesi

Non possiamo essere sicuri ancora oggi sull’effettiva natura del morbo che decimò la popolazione ateniese in quell’anno di guerra, che si sia trattato di tifo, di febbre emorragica o ancora di vaiolo, di febbre gialla o di un organismo ormai estinto quello è certo che Pericle si trovò in grave difficoltà e che una buona parte dei cittadini ateniesi lo considerava responsabile della sciagura che si era abbattuta sulla loro città.

Lo scoramento che afflisse gli ateniesi è ancora una volta ben descritto da Tucidide: “In quell’epoca non si verificò accanto alla peste alcun’altra affezione di tipo ordinario: e se pure si presentava, si trasformava in peste. I malati morivano in parte per mancanza di cure, ma ne morivano anche nonostante la più scrupolosa assistenza. Non si trovò, possiamo dire, assolutamente nessun farmaco di effetto sicuro. Quello stesso che in un caso si rivelava salutare, in un altro era nocivo. Nessuna costituzione, più o meno forte o debole, poteva opporre alcun mezzo di difesa al male, che portava via tutti senza distinzione, con qualunque trattamento si provasse a curarli. L’effetto più tremendo di questa calamità era lo scoramento, quando ci si accorgeva di essere colpiti (abbandonavano subito ogni speranza, si ritenevano senz’altro spacciati, e non opponevano nessuna resistenza al male); e il fatto che, curandosi a vicenda, morivano di contagio, come avviene tra le bestie. Era appunto al contagio che si doveva la più intensa mortalità. Quelli che per paura evitavano i contatti morivano in solitudine (e molte famiglie furono spazzate via perché nessuno volle fare loro da infermiere). Quelli che non li evitavano vi rimettevano la vita: specie coloro che tenevano a mostrare una certa nobiltà di sentimenti. Spronati dal senso dell’onore essi arrischiavano la propria esistenza visitando gli amici; mentre invece perfino i familiari, alla fine, oppressi ed esauriti dall’orrore del male, arrivavano a trascurare perfino le lamentazioni dei propri morti. Ad ogni modo maggiore pietà di questi familiari mostravano, verso chi moriva e chi lottava col male, coloro che ne erano scampati, per l’esperienza fatta, e perché ormai si sentivano al sicuro. Giacché il male non tornava una seconda volta: o almeno non tornava con esito letale. Gli altri li consideravano felici: ed essi stessi nell’esaltazione del momento si abbandonavano senza riflettere alla vaga speranza che anche per l’avvenire nessun’altra malattia se li sarebbe mai più portati via“.

continua

Fonti:

alcune voci di Wikipedia

“Epidemie e guerre che hanno cambiato il corso della storia” di G. Breccia e A. Frediani

La guerra del Peloponneso di Tucidide

Natale Seremia

Appassionato da sempre di storia e scienza. Divoratore seriale di libri e fumetti. Blogger di divulgazione scientifica e storica per diletto. Diversamente giovane. Detesto complottisti e fomentatori di fake news e come diceva il buon Albert: "Solo due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana, riguardo l’universo ho ancora dei dubbi."

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