lunedì, Settembre 16

La lentezza delle transizioni energetiche

In questi mesi, sia in Italia che nel resto del mondo, si parla molto della necessità di accelerare la transizione ecologica dell’economia per mitigare gli effetti più disastrosi del cambiamento climatico e contrastare l’inquinamento. ONU, Unione Europea ed anche singoli Stati hanno lanciato ambiziosi programmi che però rischiano di naufragare miseramente. Vediamo perché.

Nel 1800 soltanto l’Inghilterra, alcuni paesi del Nord Europa ed alcune regioni nord occidentali della Cina utilizzavano il carbon fossile per generare calore. Il 98% dell’energia primaria del pianeta era ricavata dalle biomasse, ovvero legna da ardere e carbone vegetale. Di più nelle regioni dove una selvaggia deforestazione aveva ridotto ai minimi termini la presenza di boschi si utilizzavano perfino escrementi animali e paglia essiccata per produrre calore.

Un secolo dopo, nel 1900, con l’espansione dell’industria carbonifera e le prime produzioni ricavate da petrolio e gas negli Stati Uniti e in Russia, le biomasse fornivano ancora il 50% dell’energia necessaria. Mezzo secolo dopo, nel 1950 questa quota resisteva ancora al 30%. Soltanto all’inizio del ventunesimo secolo la quota parte prodotta dalle biomasse è scesa al 12% su scala mondiale.

Come si evince da questa sommaria timeline ci sono voluti due secoli per spostare la produzione di energia dalle biomasse vegetali al carbon fossile. Adesso il traguardo a cui puntiamo è la decarbonizzazione dell’economia mondiale. E’ un passaggio obbligato se non vogliamo consegnare alle future generazioni scenari degni in tutto e per tutto di film post apocalisse.

Purtroppo questa transizione sta avvenendo ad un ritmo inutile per prevenire gli effetti peggiori dei cambiamenti climatici. La prima Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici si è tenuta nel 1992. Quell’anno la quota energetica proveniente dai combustibili fossili si attestava al 86%. Nel 2017. ovvero 25 anni dopo, questa quota si è ridotta di un misero 1,5%.

Come è possibile, se questo è il ritmo venticinquennale, abbattere qualcosa come il 60-70% dell’energia prodotta da combustibili fossili entro il 2050 con fonti energetiche di diversa provenienza? Questo risultato si può raggiungere soltanto attraverso un collasso del sistema economico mondiale oppure attraverso l’adozione di nuove fonti energetiche su una scala di grandezza temporale decisamente superiore alle nostre attuali possibilità.

I dati che riguardano la crescita delle fonti alternative non sono molto incoraggianti. Prendiamo, ad esempio l’eolico: nel 1992 l’energia prodotta dal vento era pari allo 0,5% dell’energia elettrica globale. Nel 2017 questo tasso era salito al 4,5%. Questo significa che in questo quarto di secolo ha contribuito di più alla decarbonizzazione l’energia idroelettrica di quella eolica.

E’ l’energia elettrica rappresenta, a livello globale, soltanto il 27% dell’energia prodotta nel nostro pianeta. In ogni caso sono possibili ulteriori miglioramenti della performance per quanto riguarda l’energia eolica e solare, ma ci sono settori dell’economia, molto importanti, che dipendono quasi esclusivamente, da energia prodotta con combustibili fossili. Ed in questo momento non ci sono fonti alternative in grado di offrire una diversa opportunità energetica.

Si tratta ad esempio del trasporto a lunga percorrenza, sia marino che nei cieli, su cui ruota l’economia globalizzata e che al momento non presenta alternative tecnicamente ed economicamente sostenibili per rinunciare all’energia da combustibili fossili.

Insomma per accelerare questa indispensabile rivoluzione energetica, oltre a cogenti e coraggiose politiche nazionali ed internazionali, probabilmente c’è da ripensare un modello di sviluppo che nel breve e medio periodo contrasta con l’indispensabile decarbonizzazione del mondo.

Fonti:

I numeri non mentono di Vaclav S.

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