La radioastronomia

I primi esperimenti di radioastronomia risalgono al 1933 quando Karl Jansky (1905-1950), fisico ed ingegnere radio statunitense scoprì che la Via Lattea emanava onde radio; egli non diede seguito alla sua scoperta, ma segnò comunque l’inizio della radioastronomia. Nel 1937 il giovane Grote Reber (1911-2002), astronomo statunitense, aveva individuato per hobby diverse sorgenti celesti di onde radio, dette «radiostelle» e che noi più correttamente definiamo adesso radiosorgenti.

Tuttavia, i primi radiotelescopi impedivano una accurata osservazione degli oggetti del profondo cielo, sicché questa branca dell’astronomia fu accantonata per ben due decenni.

Durante la Seconda Guerra Mondiale ci si accorse che anche il Sole emetteva onde radio. E dopo il 1950 che la radioastronomia decollò definitivamente. Ci si accorse in quegli anni che alcune radiosorgenti corrispondevano a resti di supernova, come Cassiopeia A. Altre però, come constatò nel 1960 Allen Sandage, sembravano associate ad oggetti compatti simili a stelle. Furono quindi denominate «radiosorgenti quasi stellari», «quasi stellar radio source» termine che fu poi contratto nel celeberrimo quasar.

Si scoprì poi che alcune galassie avevano delle strane protuberanze che si diramavano dal nucleo galattico ed emettevano onde radio. A loro fu attribuito il nome di radiogalassie. Nel 1963, Maarten Schmidt e Jesse L. Greenstein analizzarono la luce di varie quasar e scoprirono un fatto inquietante; pareva proprio che la radiazione fosse enormemente «arrossata». Sulla base della legge di Hubble significava che queste galassie sembravano allontanarsi tanto più velocemente quanto erano lontane. Schmidt, usando la legge di Hubble al contrario (cioè usando la velocità, dedotta dall’arrossamento, per calcolare la distanza) stabilì che le quasar erano lontanissime, a miliardi di anni-luce da noi!

Questo significava che per essere visibili da noi da questa immensa distanza dovevano emettere una spaventosa quantità di energia quasi un centinaio di volte quella emessa dalla nostra galassia, la Via Lattea. Grazie ai telescopi più potenti, oggi siamo in grado di affermare che molte quasar hanno un diametro inferiore ad un giorno-luce, cioè hanno dimensioni non più grandi del nostro sistema solare. Intorno ad alcune di esse sono state osservate delle stelle, il che ci porta a pensare che le quasar siano nuclei di galassie non troppo diverse da quelle normali, solo che per la grandissima distanza riusciamo a scorgerne prevalentemente il centro brillante.

Le radiogalassie invece potrebbero essere quasar in cui il centro luminosissimo ci è nascosto da una fascia di polveri oscure, cosicché saremmo in grado di osservarne solo i getti di materia, che per una combinazione di campi magnetici e particelle cariche emettono onde radio a profusione.
La radioastronomia è anche parzialmente responsabile per l’idea che la materia oscura è una componente importante nel nostro universo; le misurazioni radio della rotazione delle galassie suggeriscono che c’è molta più materia nelle galassie di quella osservabile direttamente. Anche la radiazione cosmica di fondo fu scoperta per la prima volta usando radiotelescopi.

Ci sono moltissimi radiotelescopi sparsi in tutto il mondo, il più importante è probabilmente il Very Long Baseline Array, costituito da 10 antenne poste su tutto il territorio statunitense, dalle Isole Hawaii alle Isole Vergini americane.


Per le lunghezze d’onda radio, il sistema produce immagini persino più dettagliate del Telescopio spaziale Hubble. Di fatto, è così sensibile che anche la deriva dei continenti diventa apprezzabile in alcune osservazioni.

Valmont57

Diversamente giovane, fondatore di Wiki Magazine Italia, (già Scienza & DIntorni), grande divoratore di libri, fumetti e cinema, da sempre appassionato cultore della divulgazione storica e scientifica.

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