Siamo verso la fine del Cinquecento in una foresta del Sud America, Sir Walter Raleigh (1552-1618), navigatore, corsaro ed esploratore inglese assiste ad una scena inquietante. Una scimmietta che si lancia da un albero ad un altro, ad un certo punto sembra mancare la presa e precipita a terra, agonizzante.
L’esploratore inglese, favorito di Elisabetta I, che finirà decapitato dal suo successore Giacomo I, si rende conto che è stata abbattuta da una piccola freccia intrisa di veleno scagliata da un indigeno.
I nativi chiamavano quel veleno dei tre alberi, per sottolinearne la minore potenza rispetto ai veleni da due alberi o da un albero.
Incuriosito dalla repentina morte della scimmietta Raleigh raccolse una piccola quantità di questa sostanza, che gli indigeni chiamavano urari, su un dito. Probabilmente il dito dell’esploratore inglese presentava qualche abrasione o qualche piccola ferita, perché il malcapitato Raleigh subì un repentino collasso mentre il veleno gli entrava in circolo.
Fortunatamente per lui la dose non era sufficiente per uccidere un essere umano, dopo tutto si trattava di un veleno da tre alberi e Raleigh si riprese. L’urari come veniva chiamato dai nativi, che nella loro lingua significa chi lo riceve cade era estratto dalla radice o dal fusto di una specie di liana, il Chondrodendron tomentosum.
Raleigh ne portò un certo quantitativo in patria dove alla sostanza fu dato il nome di curaro, dalla parola india che significa veleno. Ci vorranno però secoli prima che qualcuno intuisse che il curaro poteva essere qualcosa di più di un veleno letale. Nel 1812 Charles Waterton scoprì facendo esperimenti su una mula che se somministrato in dosi giuste il curaro provocava un estremo rilassamento muscolare senza risultare mortale.
Nel 1844 il fisiologo francese Claude Bernard comprese il meccanismo attraverso il quale il curaro agisce bloccando la trasmissione nervosa alla muscolatura fin quasi ad indurre il soggetto in uno stato di morte apparente.
Il concetto di morte apparente traumatizzò la società del tempo al punto che anche il grande scrittore Edgar Allan Poe scrisse un famoso racconto incentrato su una persona che si risveglia da uno stato di morte apparente in una bara con il conseguente terrore di essere sepolto vivo.
Nonostante qualche psicosi di troppo gli scienziati riuscirono ad isolare il principio attivo di questa sostanza estratta dalle famigerate liane: la tubocurarina ottenendo dei notevoli progressi nella cura degli effetti di alcuni veleni come la stricnina e la tossina del tetano, ma soprattutto in campo operatorio per far rilassare la muscolatura di alcuni pazienti che dovevano essere sottoposti ad operazione chirurgica.
Nel 1942 l’anestesista canadese Harold Griffith (1894-1985) fu il primo ad utilizzare il curaro in un intervento chirurgico. Da allora questo veleno è stato un valido ausilio nelle tecniche di anestesia, anche se negli ultimi anni altre sostanze con meno effetti collaterali ne hanno significativamente ridotto l’utilizzo.
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