lunedì, Settembre 16

La sorte dei collaborazionisti dopo la fine della seconda guerra mondiale

Nell’Europa occidentale all’indomani della fine delle ostilità del secondo conflitto mondiale si impose come priorità nei paesi che erano stati occupati dai tedeschi l’esigenza di fare i conti con i collaborazionisti, ovvero con coloro, che dai massimi livelli istituzionali fino al singolo individuo, avevano fattivamente cooperato con il nemico.

In Francia, Norvegia e in tutto il Benelux le autorità locali, frutto della volontà nazista, non si erano certamente coperte di gloria. Spesso la loro collaborazione con gli occupanti era stata zelante e perfino preventiva rispetto alle aspettative tedesche. Nel 1941, in Norvegia i tedeschi furono in grado di governare il paese con soltanto 806 funzionari amministrativi. La Francia con appena 1500 funzionari. I nazisti erano talmente sicuri di poter fare affidamento sulla polizia e la milizia locale francese che le affiancarono soltanto con 6.000 uomini per tenere in pugno un paese di 35 milioni di abitanti.

Lo stesso avvenne in Olanda. Niente a che vedere con il controllo della Yugoslavia dove l’azione dei partigiani teneva impegnate diverse divisioni tedesche. La differenza principale tra i territori occidentali occupati dai nazisti e quelli orientali consiste nel fatto che francesi, olandesi, belgi, norvegesi, danesi e dopo l’8 settembre 1943 gli italiani furono certamente umiliati, ma a meno di non essere ebrei o comunisti, gli venne concesso di vivere autonomamente, con governi certamente collaborazionisti che però avevo dei margini di effettivo potere interno.

I governi di Oslo, Bruxelles e L’Aia costretti all’esilio dopo il 1940 potevano sperare di ritornare in “sella” una volta terminata la guerra con la sconfitta della Germania. Così non sarà invece per i governi dell’Europa orientale che si troveranno di fronte ad una cesura storica, militare e sociale tale da cancellare i precedenti regimi. Per recuperare la legittimità perduta i governi dell’Europa liberata dovevano fare i conti con i crimini commessi non soltanto dai governanti collaborazionisti ma di quella parte della popolazione che per tornaconto personale o intima convinzione aveva convintamente appoggiato l’occupante nazista.

In alcuni casi si trattava di minoranze religiose, etniche o linguistiche e quindi già disprezzate o temute per altri motivi. La punizione dei collaborazionisti (veri o presunti) iniziò già prima del termine delle ostilità. In Francia furono condannate a morte, prima della fine della guerra, circa 10.000 persone ad opera di bande indipendenti della Resistenza, in particolare dalle Milices Patriotiques.

Un terzo fu ucciso prima dello sbarco in Normandia (6 giugno 1944) e quasi tutti gli altri nei successivi quattro mesi di combattimento in territorio francese. Lo stesso accadde in Italia, soprattutto tra Emilia Romagna e Lombardia dove rappresaglie partigiane ed esecuzioni sommarie provocarono la morte di quasi 15.000 persone prima della fine della guerra.

La vendetta contro i collaborazionisti non si esauriva nella pena capitale e investiva anche ambiti meno politici e militari. Le donne accusate di avere storie sentimentali o sessuali con il nemico, quello che sarcasticamente i francesi chiamavano “collaborazionismo orizzontale” venivano ricoperte pubblicamente di catrame e piume. In molti casi, anche in Olanda, denudate e rasate venivano sottoposte al pubblico ludibrio. Molto spesso chi accusava queste donne di favori sessuali o di relazioni sentimentali con i tedeschi erano altre donne che sfogavano così anni di umiliazione e risentimento.

Nell’immediato dopoguerra i nuovi governi occidentali nel riprendere possesso dei loro Stati precedentemente occupati dai tedeschi si trovarono a confrontarsi da un lato con l’esigenza di “ripulire” i gangli dell’apparato pubblico e la stessa società dai collaborazionisti e nello stesso tempo di definire un crimine fino allora non previsto da nessun ordinamento giuridico.

L’unico modo per far rientrare il collaborazionismo all’interno di un quadro giuridico consolidato era l’accusa di tradimento. In Francia molte persone accusate di collaborazionismo furono processate ai sensi dell’articolo 75 del Codice Penale del 1939 <<passaggio di informazioni al nemico>>. Spesso però le persone processate avevano collaborato con il governo di Vichy e non direttamente con il nemico. Qui come in diversi altri paesi: la Repubblica Sociale italiana, il protettorato di Boemia, la Slovacchia, la Croazia, la Romania del maresciallo Antonescu i collaborazionisti si difesero sostenendo che avevano soltanto lavorato per o con le autorità del loro paese.

Rimaneva poi da superare la distinzione tra responsabilità collettive e individuali. Le prime potevano in linea di massima applicarsi a determinate categorie di persone: membri di certi partiti, funzionari governativi o di istituzioni locali, membri dell’esercito. Questa distinzione però lasciava fuori le responsabilità individuali di coloro che pur non appartenendo a nessuna di queste categorie si erano macchiato di collaborazionismo con il nemico.

Senza contare che processare intere categorie, senza vagliare l’effettiva ed individuale responsabilità, costituiva un obbrobrio giuridico. Alla fine si optò per perseguire i singoli, non pochi furono accusati ingiustamente ma un numero enorme di colpevoli riuscì a sottrarsi ad ogni forma di punizione. L’esigenza di vivere una catarsi pubblica che “emendasse” la colpa di intere collettività produsse certamente irregolarità giuridiche e situazioni paradossali ma alla fine la “caccia” al collaborazionista contribuì alla rilegittimazione dello Stato di diritto nei paesi dell’Europa occidentale.

Il numero delle persone condannate e la severità delle pene variava da paese a paese. La Norvegia un paese di appena 3 milioni di abitanti, fu in proporzione, lo Stato dove si processarono più collaborazionisti. Tutti gli aderenti al partito di Unità Nazionale, 55.000 persone più quasi 40.000 simpatizzanti furono processati, 17.000 condannati a pene detentive e vennero emesse 30 condanne a morte, 25 delle quali eseguite.

In Olanda si indagarono circa 200.000 persone, quasi metà fini in carcere, 17.500 dipendenti pubblici furono licenziati, 154 furono le condanne a morte di cui 40 effettivamente eseguite. Nel vicino Belgio vennero emesse molte più condanne a morte, 2940 ma eseguite soltanto 242. Quasi centomila persone furono incarcerate ma differentemente dagli olandesi che fecero durare poco la detenzione dei collaborazionisti, i belgi passarono un numero di anni maggiore in prigione e rimasero privi di molti diritti civili per sempre.

Diverso fu il trattamento riservato ai collaborazionisti francesi, in fondo il governo di Vichy aveva una sua qualche legittimità e pertanto pur risultando il collaborazionismo molto diffuso durante la guerra le punizioni furono piuttosto blande. Poiché lo stesso Stato Francese era profondamente collaborazionista sembrava insensato perseguire i francesi che ne avevano interpretato per così dire lo spirito collaborando con il nemico.

In sostanza meno dell’1% della popolazione fu mandato in prigione per reati afferenti al collaborazionismo in tempo di guerra. Dei 38.000 detenuti la grande maggioranza venne liberata in seguito all’amnistia parziale del 1947 e tutti gli altri (ad eccezione di 1500 individui) tornarono liberi con la successiva amnistia del 1951. Tra il 1944 e il 1951 i tribunali francesi emisero 6753 condanne a morte (3910 in contumacia), ne furono eseguite soltanto 791. Questa fu la sorte dei principali esponenti del governo di Vichy:

  • Philippe Pétain, Presidente dello Stato Francese, condannato a morte, graziato e pena commutata in ergastolo per l’età avanzata (89 anni) e i servigi resi durante la grande guerra; morì in prigione a 95 anni
  • François Darlan, Capo del Governo, assassinato da un membro di Francia Libera
  • Pierre Laval, Capo del Governo, condannato a morte e fucilato

La principale punizione dei collaborazionisti francesi che colpì 49.723 persone di cui 11.000 pubblici dipendenti fu la degradazione nazionale introdotta nell’agosto del 1944. Essa consisteva nella perdita di alcuni diritti civili e nell’impossibilità di svolgere una lunga serie di professioni. Nel complesso l’epurazione coinvolse 350.000 persone nessuna delle quali però fu condannata per crimini contro l’umanità.

Ancora più complicato fu il processo di punizione dei collaborazionisti italiani che gli Alleati demandarono all’indomani dell’8 settembre al governo Badoglio che subentrava dopo 20 anni al regime fascista. Non era semplice individuare sia da un punto di vista giuridico che morale le fattispecie connesse al collaborazionismo perché l’Italia era stata per un ventennio una nazione fascista e quindi non si poteva, ad esempio applicare, la qualifica di fascista o “collaboratore” dei fascisti per individuare i collaborazionisti da punire, come avveniva in altri paesi.

Ecco perché inizialmente in base al decreto numero 159 approvato nel luglio 1944 dall’Assemblea legislativa provvisoria si accuseranno per la grande maggioranza i fascisti del nord Italia che avevano aderito alla Repubblica di Salò. I processi che si terranno nei mesi e negli anni a venire erano però celebrati da giudici e avvocati che nella maggior parte dei casi erano ex fascisti, questo si tradurrà nei fatti in un’epurazione limitata e “dolce”.

I risultati lasciarono tutti insoddisfatti. Al febbraio 1946 si erano svolte indagini su 394.000 funzionari pubblici, soltanto 1580 furono licenziati. L’Alta Commissione incaricata di gestire l’epurazione fu sciolta nel marzo del 1946 e tre mesi dopo fu annunciata la prima amnistia che cancellava tutte le condanne inferiori ai cinque anni di carcere. Non più di 50 persone furono condannate a morte dopo un regolare processo.

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