Il 22 maggio scorso si è spento Philip Roth, uno dei più grandi romanzieri americani, eccelso interprete di quella schiera di scrittori ebrei americani come Saul Bellow, Paul Auster ed Henry Roth. Autore prolifico Roth è stato più volte proposto per il Premio Nobel senza però mai riuscire a vincerlo. Insieme a Pastorale Americana il Lamento di Portnoy è il suo capolavoro.
Pubblicato nel 1969, scritto con un linguaggio aspro, forte, a volte scurrile il romanzo è centrato su un ininterrotto monologo di Alexander Portnoy, un ebreo americano, al suo psicanalista, il dottor Spielvogel, prima che quest’ultimo inizi la terapia prevista.
Il protagonista-narratore un nevrotico erotomane, con un rapporto di amore-odio verso la sua famiglia ed il mondo e le tradizioni ebraiche (verso le quali poi paradossalmente si sente legato) alterna i piani temporali della sua infanzia, adolescenza e gioventù.
Incapace di trovare un equilibrio stabile e disperatamente alla ricerca di una moglie, una famiglia, dei figli Alex Portnoy si porta dietro le sue manie, i suoi tic, le sue idiosincrasie e le sue morbosità sessuali, alla disperata ricerca di una banale, ordinaria ed impossibile normalità.
Dal romanzo è stato tratto un adattamento cinematografico di modesto valore nel 1972 tradotto in italiano con Se non faccio quello non mi diverto.
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