lunedì, Settembre 16

L’aviazione della Marina USA nella guerra del Vietnam

Una caratteristica fondamentale del decennale conflitto vietnamita furono gli incessanti bombardamenti sul Vietnam del Nord da parte delle forze aeree americane. In realtà l’aviazione americana era sostanzialmente divisa in due rami, l’USAF (United States Air Force) e l’aviazione della Marina.

Il ruolo dell’aviazione della Marina USA

Quest’ultima svolse un ruolo rilevante durante il conflitto. Gli aerei partivano dall’imponente flotta di portaerei statunitensi che sostavano a 250-270 km dalle coste vietnamite. Gli Stati Uniti possedevano, a metà degli anni Sessanta, più portaerei del resto del mondo: 16 nelle varianti d’attacco e 10 in quelle anti sommergibile. Il nerbo era costituito dalla classe Forrestal, da 75.000 tonnellate, in grado di rimanere stabile anche con il mare mosso.

Sia le portaerei Forrestal che quelle della più vecchia classe Essex, imbarcavano circa 70 tra aerei ed elicotteri. Nel giugno del 1965, l’arrivo sul teatro di guerra, della Independence aggiungeva alla flotta aerea disponibile gli A-6A Intruder dotati del sistema DIANE (Digital Integrated Attack and Navigational Equipment) che permetteva a questi velivoli di volare in qualsiasi condizione meteo.

Nel primo anno intero della campagna la marina eseguì cinquantasettemila sortite, perse oltre cento aeroplani e ottanta uomini d’equipaggio. I vietnamiti non osarono attaccare le portaerei. Queste gigantesche unità infatti era ben protette da una cintura di navi di scorta e da squadroni di caccia intercettori.

L’organizzazione operativa delle portaerei americane

Ogni portaerei aveva un equipaggio di circa 5000 tra tecnici e marinai, di fatto tutti votati a sostenere l’attività di un centinaio di piloti. Contrariamente a quanto si può pensare la vita operativa all’interno delle portaerei era estremamente stressante e non priva di gravi rischi. Le attività sul ponte di volo e sul ponte hangar di fatto non avevano quasi soluzione di continuità nell’arco delle 24 ore.

Il personale era identificato da casacche di diverso colore: giallo per i movieri, blu per gli ascensoristi e gli assistenti, verde per gli uomini alla catapulta e ai cavi d’arresto, marrone per il personale che preparava gli aerei per il lancio, rosso per gli addetti agli armamenti e i vigili del fuoco. Dalla sala di controllo, via telefono, si davano gli ordini agli assistenti alla movimentazione per portare gli aerei sul ponte di volo o ricoverarli dopo una missione nell’hangar.

I piloti in servizio erano costretti a star seduti per due o tre ore sul seggiolino eiettabile sotto il sole rovente, pronti ad avanzare quasi senza preavviso verso le catapulte sbuffanti vapore per il lancio.

Gli incidenti nella vita operativa delle portaerei

Gli incidenti, anche molto gravi, erano all’ordine del giorno sulle portaerei. Nell’ottobre del 1966 per colpa di due marinai che stavano cazzeggiando con un razzo di segnalazione sotto coperta, sull’Oriskany, una portaerei di classe Essex, scoppiò un furioso incendio che costò la vita a 44 uomini.

Sulla Forrestal le cose andarono ancora peggio. A causa della partenza accidentale di un razzo Zuni ad opera di un F-4, fu centrato il serbatoio di un Phantom. L’incendio che si scatenò, alimentato dal vento, si propagò in maniera incontrollata per quasi 12 ore. Quando finalmente le fiamme furono domate ii bilancio si rivelò drammatico: 144 morti, 21 velivoli distrutti ed altri 44 danneggiati. Riparare la Forrestal costò 72 milioni di dollari.

I piloti

Solitamente da ciascuna portaerei partivano almeno tre attacchi al giorno. I piloti facevano colazione alle 4.30 del mattino e alle 6.00 si svolgeva il briefing con le istruzioni e gli obiettivi dell’attacco. Se possibile venivano assegnati bersagli in prossimità della costa in modo che se i piloti fossero stati colpiti avrebbero avuto maggiori chances di eiettarsi sul mare dove le operazioni di salvataggio e recupero erano molto più sicure.

Sulle catapulte l’aereo schizzava da 0 a 160 nodi di velocità in soli tre secondi. Una formazione d’attacco tipica poteva essere composta da venti bombardieri – magari sedici A-4 e quattro F-8, supportati da due velivoli per la soppressione della flak (i cannoni destinati alla contraerea). Più indietro rimaneva un aereo adibito all’ECM (contromisure elettroniche) più un paio di aerocisterne per il rifornimento di carburante. L’intera missione durava mediamente 90 minuti.

Il pericolo maggiore era la grande capacità di saturazione della contraerea vietnamita. Il comandante Nichols così ricordava qualche tempo dopo: «Potevano riempire di flak letale una colonna di tredici chilometri quadrati dai tremila ai ventimila piedi». Se il fuoco di contraerea era molto temuto dai piloti americani, lo stesso non si poteva dire per la presenza dei MIG nemici, che ben presto evitarono il contatto diretto con l’aviazione statunitense.

Vista la netta superiorità tecnologica degli aerei USA, i piloti vietnamiti in genere attaccavano solo quando godevano di un chiaro vantaggio tattico, specialmente per quanto riguardava l’altitudine, sparavano i loro missili Atoll e rientravano alla base dopo un singolo passaggio. Nondimeno per anni la Marina abbatté molti meno aerei nemici dell’USAF.

Le prestazioni dell’aviazione della Marina migliorarono solamente nell’ultima fase della guerra, quando la scuola di tattica e dottrina militare di Miramar, in California, istituì il corso Top Gun, e chi ne uscì dimostrò di avere una capacità impressionante nell’abbattere i caccia nemici.

Per saperne di più su Scienza & Dintorni:

Il bilancio della guerra in Vietnam nel 1966

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