lunedì, Settembre 16

L’eversività della psicoanalisi lacaniana.

In una società definita e particolarizzata così com’è quella contemporanea ogni oggetto o essere vivente tende ad essere nominato; linguisticamente e culturalmente categorizzato. La complessità sociale sancita dalle sempre più industrializzate comunità invoca l’infinita ricerca del senso e la conseguente (temibile) iper-creazione di significati e generi; quindi ruoli sociali. La rigida linea che da secoli separa la concezione di normalità da quella di anormalità – poiché di questo si intende argomentare – assume oggi la funzione mascheratrice di un’incalzante dissoluzione (è mai esistita la differenza?) tra questi due mo(n)di di vita, per cui la tecnica clinica psicoanalitica del francese Jacques Lacan risulterebbe più che appropriata non limitatamente all’ambito psichiatrico, bensì come possibile punto di partenza per una rivisitazione del senso etico dell’esistenza umana.

Jacques Lacan, francese vissuto a Parigi tra il 1901 ed il 1981, è stato tra i più importanti prosecutori e rinnovatori della clinica freudiana. Il merito che gli si affida è quello di aver “letto tra le righe” degli studi freudiani sulle psicopatologie molto più della visione predominante la teoria e pratica clinica – nonché ideologica – ad oggi ostinatamente perseguita. L’indirizzo clinico maggiormente adottato per la cura dei pazienti è dato dal ruolo protagonista della funzione medica, che volge ad applicare un metodo scientifico quasi dogmatico, dal quale consegue una discriminazione nei confronti della singolarità del paziente. Secondo quanto detto, dunque, il soggetto in cura risulterebbe vincolato ad un modello che discende dall’ideologia sociale dominante, in maniera tale da garantire l’efficienza della terapia – funzionale anch’essa al mantenimento della quiete sociale, nonché del corpo medico stesso – a breve termine, alla dipendenza strutturale del paziente nei confronti dell’opinione scientifica, e quindi alla rinuncia del soggetto stesso alla responsabilità propria di assunzione del trauma psichico.

Di qui, la svolta lacaniana è stata data dalla rivalutazione del soggetto malato, e della malattia mentale stessa, non come dato deterministico ed irrisolvibile, “nelle mani degli esperimenti medici”, bensì come personalissima ricerca di senso nel proprio percorso di vita, come dimensione naturale della storia di ogni individuo. Ridimensionare la malattia alla singolarità di ognuno implica l’adattamento del modello alla personalità, e non, come già detto, l’adeguamento del paziente al modello tecnico scientifico. La scoperta delle proprie tracce – che altro non sono se non memorie turbolente sepolte nel profondo dell’anima – permette una tipologia di cura che offre al paziente la possibilità di assumere in prima persona la propria malattia, la capacità di percepirsi come soggetto attivo del percorso psicoanalitico, che non prescinde dal supporto e riscontro con l’analista, ma del quale ne ridimensiona fortemente l’autorità.

La dimensione etica della patologia mentale, in quanto favorevole al rispetto dell’emotività e singolarità del paziente, e discriminante nei confronti della presunzione ideologica del corpo medico, è costato a Lacan l’espulsione nel 1963 dalla Società francese di psicoanalisi ed il suo abbandono dell’IPA (Associazione Psicoanalitica Internazionale), con l’abbattimento della durata standard della seduta analitica, a favore della temporalità variabile (da alcuni minuti a qualche ora), come simbolo del cambiamento di rotta della pratica clinica. A torto, o ragione, l’espulsione obbligata dal corpo medico francese sottolinea l’incapacità di adattamento della tecnica all’etica, la cecità del modello medico perseguito a favore della continua evoluzione della scienza stessa, che non può che ricadere sull’efficacia della cura e del benessere del paziente. A discapito dell’ideologia medica dominante, il francese Lacan ha dato al malato il diritto ad essere chiamato per Nome, a non rivedersi come un “uno, nessuno, centomila” – caratteristica tipica di chi è affetto da alienazione mentale: dipendenza strutturale nei confronti dell’opinione altrui e contemporanea esasperazione dell’Io (“Io vs. Tu”) – mentre ha richiesto al soggetto in cura di assumere l’onere del proprio Nome senza affidarlo all’istituzione medica, sentendosi un soggetto della cura, e non un oggetto della medicina.

E voi, cosa ne pensate? Dareste la possibilità ad ognuno di esprimersi? Fateci sapere la vostra in un commento!

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