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Operazione Barbarossa: il crollo nervoso di Stalin

La storiografia ha ampiamente denunciato la miopia del dittatore sovietico alla vigilia dell’invasione nazista denominata “Operazione Barbarossa”. Stalin con mesi di anticipo era stato avvisato dalle numerose ed efficienti reti spionistiche russe e perfino da Churchill che la Germania si stava preparando ad infrangere unilateralmente il patto di non aggressione Molotov e von Ribbentrop stipulato a Mosca il 23 agosto 1939.

Stalin ignorò persino le informazioni giunte da disertori tedeschi pochi giorni prima del 22 giugno 1941, data dell’attacco nazista. Il dittatore georgiano riteneva tutti questi avvertimenti come “provocazioni” occidentali tese a far fallire il patto di non belligeranza tra Germania ed Unione Sovietica.

Questa pervicace volontà di ignorare i dati della realtà sopravvisse in Stalin anche successivamente alle prime ore dopo l’aggressione delle forze tedesche. Quando alle quattro del mattino Zukov, Capo di Stato Maggiore della difesa, lo svegliò mentre riposava nella sua dacia, ancora Stalin si baloccava con l’idea balzana che l’esercito tedesco stesse agendo di propria iniziativa all’insaputa di Hitler.

Finalmente il dittatore georgiano dovette prendere coscienza della cruda e drammatica evidenza dei fatti e fece promulgare ordini insensati. Lo Stavka, com’era chiamato il comando supremo delle forze armate sovietiche, ordinò alle truppe di frontiera di «attaccare le forze nemiche con tutti i mezzi a loro disposizione e di sgominarle dovunque abbiano oltrepassato il confine». Quanto all’aviazione, gli ordini recitavano di assestare «attacchi poderosi» e di «distruggere il grosso delle truppe nemiche e i loro velivoli sui campi di aviazione». I bombardieri sovietici avrebbero dovuto colpire le città di Könisberg e di Memel nella Prussia orientale; le truppe dislocate nella regione sudoccidentale dovevano conquistare la città polacca di Lublino, cinquanta chilometri oltre il confine.

Si trattava di ordini di un uomo che aveva perduto ogni contatto con la realtà. L’aviazione sovietica praticamente non esisteva più, annientata dai primi attacchi della Luftwaffe, i soldati investiti dal primi attacchi da parte di 146 divisioni tedesche (19 delle quali corazzate e 14 di fanteria motorizzata), per un totale di 3 500 000 uomini, 3 300 carri armati, 600 000 veicoli motorizzati (trasporti truppe, cannoni semoventi e veicoli anticarro) oltre 7 000 pezzi d’artiglieria e 2 770 aerei e circa 625 000 cavalli erano stati spazzati via o terrorizzati si erano arresi quasi senza combattere.

I rinforzi inviati nei giorni successivi sono mal equipaggiati e ancora meno armati. Numerosi reparti avevano un fucile per ogni 10 uomini e i soldati russi erano costretti a recuperare le armi dei soldati morti per avere qualcosa con cui combattere. Il primo segno del crollo psichico di Stalin si registra quando è chiamato ad annunciare per radio l’inizio della guerra contro la Germania nazista.

Si rifiuta di farlo ed incarica Molotov di parlare alla nazione. «Si trattò certamente di un errore», scrisse più tardi Mikojan. «Tuttavia Stalin era in preda a una depressione così profonda che non avrebbe saputo cosa dire alla nazione».

Molotov se la cavò piuttosto bene e chiuse il suo discorso con una frase che colpì profondamente gli ascoltatori, destinata ad entrare non soltanto nella “mitologia” della Grande Guerra Patriottica ma nella Storia: «La nostra è una causa giusta. Il nemico verrà distrutto. La vittoria sarà nostra».

Stalin ormai si rendeva conto come la situazione fosse disperata e quando il 28 giugno le armate naziste presero Minsk, intrappolando 400.000 soldati dell’Armata Rossa, egli disse ai suoi collaboratori: «Lenin ci ha lasciato una grande eredità e noi, i suoi eredi, abbiamo mandato tutto a puttane!»

Il 29 giugno il dittatore georgiano abbandona il Cremlino e si ritira nella sua dacia dove si coricò senza spogliarsi e passò il tempo dormendo oppure vagando stralunato per le stanze del suo buen retiro. Il giorno seguente non tornò come di consueto al Cremlino. Chi chiamava si sentiva rispondere che «il compagno Stalin non è qui e non è probabile che vi giunga». Per due giorni i membri del Politburo e le alte cariche dello Stato sovietico vennero lasciati nel dubbio se fosse ancora lui al comando o se avesse subìto un crollo nervoso irreversibile.

Alla fine una delegazione del Politburo, tra cui Molotov e Mikojan, vinse il terrore che il dittatore georgiano incuteva e si recò alla sua dacia. I rischi personali che sapevano di correre erano niente in confronto al vuoto di potere che si stava prefigurando in una situazione disperata.

Stalin accolse la delegazione con una domanda che rivelava il timore di essere arrestato “Che siete venuti a fare?”. Molotov lo mise al corrente della proposta del Politburo di creare un Comitato di Stato per la difesa. Il dittatore chiese chi lo avrebbe presieduto ed accolse con malcelato sollievo la risposta di Molotov “Tu, ovviamente”.

Nei giorni che seguirono Stalin era la pallida ombra del tiranno spietato che terrorizzava i vertici del potere sovietico ed i generali dell’Armata Rossa. Kruscev lo descrisse così: “era uno Stalin diverso, un mucchio d’ossa in giubba grigia”.

Finalmente Stalin iniziò a recuperare un po’ di quell’energia nervosa e quella sicurezza che i suoi madornali errori di valutazione su Hitler e la Germania nazista avevano sgretolato. Il 3 luglio parlò al popolo sovietico in un messaggio radiofonico, esordendo: «Compagni! Fratelli e sorelle! Uomini del nostro esercito e della marina! Mi rivolgo a voi, miei amici!». Mai Stalin si era rivolto così al suo popolo chiamandoli amici, fratelli e sorelle.
Il dittatore georgiano per la prima volta si rivolgeva ai russi non come sudditi ma come compagni, fratelli impegnati in una lotta comune.

Stalin era tornato ed era nuovamente, saldamente al potere.

Valmont57

Diversamente giovane, fondatore di Wiki Magazine Italia, (già Scienza & DIntorni), grande divoratore di libri, fumetti e cinema, da sempre appassionato cultore della divulgazione storica e scientifica.

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