giovedì, Settembre 19

Pari o dispari? L’interminabile marcia verso la parità di genere

La Commissione europea nella comunicazione relativa alla strategia per la parità di genere 2020-2025, ha sottolineato come finora nessuno Stato membro ha realizzato la parità tra uomini e donne. I progressi registrati negli ultimi anni sono lenti e disomogenei e i miglioramenti che riguardano sia la vita lavorativa, la parità retributiva e la partecipazione alla vita politica e istituzionale dei singoli paesi rispecchiano ancora una generalizzata condizione discriminatoria. Con una certa dose di ottimismo il raggiungimento dell’uguaglianza di genere è tra i 17 Obiettivi delle Nazioni Unite per uno sviluppo sostenibile che costituiscono l’Agenda 2030, sottoscritta da 193 nazioni. È inutile sottolineare che raggiungere questo obiettivo entro il 2030 con l’attuale trend sia ormai poco credibile.

La parità di genere passa attraverso il lavoro

In questo contesto non propriamente confortante, la situazione del nostro paese è ancora più arretrata, nonostante negli ultimi anni sia stata implementata un’attività legislativa volta a favorire la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, di supporto alla genitorialità, nonché disposizioni per il contrasto delle cosiddette dimissioni in bianco. Sono stati inoltre rafforzati gli strumenti di sostegno finalizzati alla creazione e allo sviluppo di imprese a prevalente o totale partecipazione femminile.

Secondo il rapporto BES – Benessere equo e sostenibile dell’ISTAT: “In Italia, lo svantaggio delle madri occupate è evidente. La presenza di figli, soprattutto se in età prescolare, ha un effetto non trascurabile sulla partecipazione della donna al mercato del lavoro […] Riuscire a conciliare lavoro e tempo di vita è un obiettivo fondamentale per il benessere sia degli uomini che delle donne, ma nel nostro Paese si fatica a trovare un equilibrio”.

Il tema della conciliazione tra tempo di vita e di lavoro rimane uno snodo cruciale per un’effettiva parità di opportunità tra uomini e donne. Ancora oggi la ripartizione del lavoro domestico e della cura dei figli è fortemente squilibrato, a svantaggio delle donne. La difficile conciliabilità tra lavoro e cura dei figli si riflette anche sul tasso d’occupazione femminile. Eurostat ha fotografato l’andamento occupazionale di un decennio, dal 2011 al 2020. Il tasso di occupazione maschile nel 2020 era infatti del 77,2% (dal 73,4% del 2011), mentre quello femminile del 66,2% (dal 60,9% del 2011). Pur in presenza di una diminuzione, ancora due anni fa il divario occupazionale di genere era di ben 11 punti percentuali a sfavore delle donne. Come se ciò non bastasse la situazione lavorativa delle donne è mediamente più precaria di quella degli uomini e si può sintetizzare nella sintesi prodotta in uno studio del CNEL: “Le ultime ad entrare e le prime ad uscire”.

L’impatto della pandemia

La pandemia globale di Covid19 ha peggiorato il quadro occupazionale delle donne, nel 2020, secondo dati ISTAT la forza lavoro femminile nell’anno dell’avvento della pandemia è calata di oltre 700.000 unità rispetto all’anno precedente, con un parziale recupero (169.000 unità) nel 2021. Di più, questa piccola ripresa occupazionale è caratterizzata da forme contrattuali a termine e partime, in altre parole con un tasso di precarietà nettamente superiore a quello degli uomini. Nello specifico, guardando al totale del numero di attivazioni contrattuali del 2021 (sul totale delle attivazioni) nel I semestre per le donne (poco più di 1,3 milioni), la maggior parte (38,1%) è a tempo determinato; seguono il lavoro stagionale (17,7%), la somministrazione (15,3%) e, solo in quarta istanza, l’indeterminato (14,5%). Per gli oltre 2 milioni di contratti attivati per gli uomini, quasi la metà (il 44,4%) è a tempo determinato, subito seguito dall’indeterminato (quasi un’attivazione su cinque, il 18%) .

Nel complesso quello che emerge dai dati relativi al 2021 è che mentre il tasso di occupazione (riferito ad individui tra i 15-64 anni) per gli uomini si attesta al 67,1%, per le donne scende al 49,4%. Nell’arco della vita “produttiva” meno di una donna su due lavora, quasi 18 punti di scarto rispetto all’universo maschile. Si tratta di un dato medio nazionale che nasconde profonde differenze regionali, nel Mezzogiorno d’Italia soltanto una donna su tre ha un impiego.

Il peso dei figli

Analisi più approfondite del mercato del lavoro dimostrano che un alto grado di istruzione favorisce le donne. Se si prendono in esame soltanto le persone laureate, il divario occupazionale tra uomini e donne scende a soli 6,7 punti rispetto ai quasi 18 del dato globale nazionale. L’istruzione quindi premia e proporzionalmente premia di più le donne. La condizione lavorativa peggiora ulteriormente se prendiamo in considerazione le donne con figli, in particolare quelle con bambini in età prescolare. Questa condizione costituisce un ulteriore e difficile barriera per l’ingresso nel mercato del lavoro e per le giovani donne che diventano madri da occupate un ostacolo, spesso insuperabile, per la propria carriera professionale.

La maternità non costituisce uno svantaggio esclusivamente dal punto di vista occupazionale ma come ormai dimostrato da molti studi, si ripercuote negativamente anche sull’aspetto retributivo. Se questa analisi sommaria e certamente esaustiva traccia un’istantanea della condizione lavorativa femminile, non si può sottacere che la stragrande maggioranza delle donne svolge un altro lavoro non retribuito, quello domestico e di cura dei figli, dei genitori o congiunti anziani, malati e disabili. Questo lavoro non retribuito non appare in nessuna statistica socioeconomica, ad iniziare dal famigerato PIL, alcune stime ne indicano il valore monetario corrispondente in una percentuale compresa tra il 20% e il 60% del PIL a seconda dei particolari contesti nazionali in tutto il mondo.

Secondo dati ISTAT le responsabilità di cura e di lavoro domestico sono in carico a 12.746.000 persone, circa il 34% della popolazione e le donne dedicano l’80% di tempo in più al lavoro di cura rispetto agli uomini. Questo dato, insieme a quello del Giappone è il peggiore dei paesi del cosiddetto G7. In Italia questo fenomeno è particolarmente accentuato anche per un fattore demografico, secondo l’OCSE infatti, la cosiddetta “generazione sandwich”, le persone con un’età compresa tra i 50 e i 60 anni, sulla quale grava sia il carico di cura dei genitori anziani sia quello dei figli, è prevalentemente costituita da donne.

Le conseguenze del lavoro di cura non retribuito sul lavoro retribuito e la carriera sono evidenti e sostanziati da dati inappellabili. In Italia le donne con un figlio che non hanno mai lavorato per prendersene cura sono l’11,1% rispetto a una media europea del 3,7%. Nel 2019, nel nostro paese, 37.611 donne si sono dimesse dal lavoro dopo il parto e il tasso di inattività dei genitori cresce con il numero dei figli. Il quadro sommariamente tratteggiato ci porta ad affrontare il capitolo delle misure di sostegno e dei servizi che dovrebbero sostenere le madri nella possibilità di coniugare lavoro e cura dei figli e delle persone.

L’insufficieza di infrastrutture sociali e di tutele adeguate è uno dei fattori del drammatico calo demografico che investe il nostro paese. Fare uno o più figli per una giovane donna significa molto spesso rinunciare ad una promettente carriera se non addirittura al lavoro stesso. In questa ottica è interessante riportare brevemente alcuni dati emersi da una survey online promossa da FREDA. Al questionario hanno risposto donne italiane, britanniche, spagnole e dell’America latina, tutte appartenenti ad una fascia d’età che le colloca tra Millennials e Generazione Z (dai 24 ai 44 anni), il 72% delle quali ha già dei figli.

Il 66% delle partecipanti ritiene di avere una retribuzione più bassa rispetto alle proprie competenze e preparazione. Il 42% delle intervistate sostiene che durante un colloquio di lavoro gli è stata rivolta la domanda se aveva intenzione di fare un figlio e il 91% ha ritenuto questa domanda fuori luogo. Nonostante l’impatto che una risposta sincera avrebbe potuto avere sull’esito del colloquio soltanto il 15% delle donne ha ammesso di aver mentito, mentre il 13% si è rifiutata di rispondere. Il 77% delle donne intervistate ritiene che le donne siano messe di fronte ad una scelta tra la carriera o completare la propria famiglia con uno o più figli e che avere un figlio sia un ostacolo oggettivo per la loro carriera professionale. Il 21% teme che un figlio possa condurre ad sottodimensionamento dell’attività lavorativa o addiruttura a un licenziamento. Nonostante questo il 69% delle intervistate ha dichiarato di volere un figlio, tra coloro che invece non hanno intenzione di averne, la metà lo motiva con il timore di riflessi negativi su lavoro e carriera, mentre un altro 23% ha esternato la preoccupazione che il proprio livello retributivo non fosse in grado di potersi permettere un figlio.

Il divario salariale

Quest’ultima preoccupazione ci permette di affrontare brevemente un altro squilibrio tra la condizione lavorativa maschile e quella femminile: il livello retributivo. I dati più aggiornati relativi alla disparità salariale a parità di mansione risalgono al 2018: sono stati raccolti da Eurostat e rielaborati per l’Italia da Istat.

Il divario salariale della paga oraria tende ad aumentare nelle professioni in cui c’è una minore presenza femminile. Tra i dirigenti, ad esempio, gli uomini guadagano in media il 27,3% in più rispetto alle donne. A seguire sono gli appartenenti alle Forze armate (18,8%) e quello degli artigiani e degli operai specializzati (18,5%). Il divario minimo si raggiunge per le posizioni lavorative meno qualificate, attestandosi poco oltre il 9%. Per avere una fotografia più completa e veritiera del dislivello retributivo occorre prendere in considerazione il cosiddetto gender overall earnings gap, un parametro che considera non solo la differenza tra le paghe orarie, ma anche il tasso di occupazione femminile nei vari Paesi europei e il numero di ore lavorate da uomini e donne. Con l’unione di questi tre fattori, nel 2018 (ultimo anno per cui sono disponibili dati) l’Italia era il terzo Paese con le differenze più marcate tra gli stipendi di uomini e donne, pari al 43%. Solo Austria (44,2%) e Paesi Bassi (43,7%) avevano due percentuali più alte di quella italiana.

Quanto sarebbe “conveniente” la parità di genere?

Eppure una piena e concreta parità di genere nel mondo del lavoro e delle professioni non è soltanto una condizione irrununciabile da un punto di viste etico e sociale ma anche un elemento di “convenienza” per la società. Secondo una ricerca McKinsey la riduzione del gender gap permetterebbe di raggiungere 28 mila miliardi di dollari di Pil mondiale entro il 2025. In altre parole una quota maggiore di lavoro femminile, una valorizzazione dei talenti e delle capacità delle donne, un adeguamento nel livello retributivo a parità di mansioni con gli uomini, non è soltanto un atto di giustizia sociale ma un acceleratore di ricchezza.

Leadership femminile e aumento del bacino occupazionale delle donne sono generatori di ricchezza aggiuntiva, secondo una stima dell’Istituto Europeo per la Parità di Genere (EIGE) sulla crescita del PIL in Europa per il 2050 abbiamo di fronte due possibili scenari. Il primo a modesto progresso di parità di genere e il secondo ad elevato progresso. Promuovere la parità di geere attraverso un progresso più rapido entro il 2050 rispetto a quello lento potrebbe aumentare il PIL pro-capite in Europa dal 6.1 al 9.6%. Si tratta di un ammontare tra i 1.95 e i 3.15 milioni di milioni di euro. Per i paesi che partono da una situazione più arretrata, come l’Italia, i guadagni del PIL arriverebbero a sfiorare il 12%.

Non bastano leggi e best practice

Una vera parità di genere però non si costruisce soltanto con interventi legislativi e buone pratiche del mondo del lavoro. Il gender gap si basa su incrostazioni culturali e sociali vecchie di secoli, per questo è indispensabile affiancare ai sopracitati interventi un profonda rivoluzione culturale che certamente non può che partire dalla scuola e dal percorso educativo delle nuove generazioni. La scuola rappresenta il luogo primario dove si forma l’identità di genere e la personalità dei ragazzi e per questo la scuola dovrebbe proporre percorsi di educazione all’identità e alle relazioni di genere agli studenti, a cominciare dai più piccoli.

Educare le nuove generazioni al rispetto e alle valorizzazioni delle differenze è una conditio sine qua non per colmare il divario esistente e costruire future relazioni fondate sulla parità, sulla cooperazione e su un’equa suddivisione dei compiti, ad iniziare da un coinvolgimento più completo dell’uomo nella genitorialità. Occorre far capire che raggiungere un’effettiva parità di genere non si traduce in una deprivazione di un qualche “attributo” della figura maschile, ma semmai in un suo arricchimento in termini emotivi, psicologici e sociali. L’educazione alla parità di genere è anche il miglior modo per prevenire e contrastare il fenomeno della violenza sulle donne, sempre drammaticamente attuale. Occorre privilegiare una visione delle differenze come ricchezza e non come fondamento di una gerarchia sociale e di possibili discriminazioni, sia in ambito lavorativo e pubblico che nella sfera personale. Azione culturale, conoscenza, percorsi educativi sono il modo migliore per accompagnare l’azione pubblica nel contrasto di stereotipi e pregiudizi ancora fortemente radicati nella nostra società.

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Fonti:

Camera dei Deputati – Documentazione legislativa – XVIII legislatura

La Repubblica – Conciliare maternità e lavoro? Un obiettivo (quasi) impossibile

Pagella Politica – Davvero una donna guadagna il 20 per cento in meno di un uomo a parità di mansione?

Fondazione Marisa Belisario – Quanto vale l’occupazione femminile per il futuro del paese?

Save the Children – Le equilibriste. La maternità in Italia 2022

Snam e Generazione Donna – Lavoro di cura e genitorialità

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