lunedì, Settembre 16

Storia di una pandemia: Il colosso dai piedi d’argilla Ep. 2

È quasi mezzanotte del 30 dicembre 2019, quando ProMED, una pubblicazione online molto seguita dell’International Society for Infectious Diseases, pubblica un articolo tradotto dai media cinesi in cui si affermava che erano stati riscontrati ventisette casi di quella che veniva definita una “polmonite da causa sconosciuta” a Wuhan.

Una pesca sfortunata

È uno dei primissimi, se non il primo, segnale della pandemia che dopo qualche settimana travolgerà il mondo. Il CDC (acronimo di Centers for Disease Control and Prevention), l’agenzia statunitense che si occupa della prevenzione e del controllo delle malattie infettive per la sanità pubblica e l’OMS vengono a conoscenza della notizia poche ore dopo.

Robert Redfield, il quasi settantenne direttore del CDC è in vacanza con la sua famiglia a Deep Creek, nel Maryland. Redfield ama pescare ma la sua passione subisce un colpo quando legge l’allarme lanciato da ProMED, il giorno dopo, vigilia di Capodanno. I segnali che provengono da questo report sono già piuttosto allarmanti l’infezione sembra trasmettersi da uomo a uomo e i primi casi di polmonite sembravano essere associati a un mercato ittico di Wuhan.

Do you remember SARS?

Il pensiero corre alla SARS che tra il 2002 e il 2003 tenne il mondo scientifico e le autorità sanitarie con il fiato sospeso. Non ci sono elementi che avvalorino che si tratti di un nuovo focolaio della temutissima SARS anche se una certa sintomatologia sembra corrispondere.

Il 3 gennaio Redfield si mette in comunicazione con il suo omologo cinese, George Fu Gao, che gli diede l’impressione di essere venuto a conoscenza dell’epidemia da poco. Gao affermò che non esistevano prove certe sulla trasmissibilità dell’agente patogeno da uomo a uomo. Gao inoltre con garbo respinse l’offerta di accogliere una squadra di “investigatori di virus” del CDC statunitense.

Anche Gao, virologo e immunologo di fama mondiale, aveva un ricordo preoccupato di quello che era stata ma soprattutto di quello che avrebbe potuto essere, l’epidemia di SARS del 2002-3. Lui stesso era il prodotto di quell’investimento massiccio nella sanità che il governo di Pechino aveva fatto dopo la conclusione dell’epidemia di SARS, che per la Cina e il suo sistema sanitario aveva rappresentato un’autentica débacle.

Il virus è già tra noi

Quando il 3 gennaio Redfield parlò con Gao era convinto che l’infezione fosse ancora contenuta entro i confini nazionali cinesi. In realtà, il virus era già presente in California, in Oregon e nello stato di Washington, e nelle due settimane successive si sarebbe diffuso in Massachusetts, Wisconsin, Iowa, Connecticut, Michigan e Rhode Island – ben prima che fosse segnalato ufficialmente il primo caso americano.

Qualche giorno dopo, sempre nella prima decade di gennaio, ci fu un nuovo contatto telefonico tra Redfield e Gao e quest’ultimo ebbe un crollo nervoso, mettendosi a piangere e dicendo, secondo la ricostruzione del direttore del CDC statunitense: “Penso che sia troppo tardi. Siamo troppo in ritardo.”

Se la Cina comunista ancora una volta veniva sorpresa con le “braghe calate” da un’epidemia, anche gli Stati Uniti stavano per dimostrare a se stessi e al mondo intero di essere il classico gigante dai piedi d’argilla.

Il funzionario che sopravvisse a Trump

Il 2020 era l’ultimo anno della controversa presidenza Trump e il vice consigliere per la Sicurezza Nazionale Matthew Pottinger era uno dei pochissimi sopravvissuti dello staff originario del tycoon che negli anni aveva fra l’altro cambiato ben cinque responsabili della sicurezza nazionale e decine di altri membri del governo e dello staff presidenziale.

La sua “longevità” nella pericolosa giungla trumpiana probabilmente derivava dalla profonda conoscenza dell’Asia di questo giornalista ed ex marine, che aveva trascorso ben sette anni in Cina e parlava perfettamente il mandarino. Nel 2003, era in Cina a raccontare per il Wall Street Journal, di cui all’epoca era un reporter, come era stata nascosta la SARS dal governo.

L’epidemia scatenatasi a Wuhan risvegliò in Pottinger, memore di quanto avvenuto in passato, un inquietante campanello d’allarme. Pottinger era preoccupato dalla discrepanza tra le tranquillizzanti rassicurazioni del governo cinese e quanto si carpiva dai social e da altre fonti informali che dipingevano una situazione fuori controllo. Il 14 gennaio Poettinger autorizzò un incontro per discutere di quella che ancora veniva considerata “un’epidemia cinese”. Al briefing parteciparono svariate agenzie della sanità pubblica americana e naturalmente il CDC ma stranamente nessun rappresentante dell’intelligence statunitense.

Il primo caso ufficiale di Covid negli Stati Uniti

Sei giorni dopo le autorità sanitarie statunitensi segnalarono il primo caso ufficiale di Covid19 in America. “Questo è un giovane di trentacinque anni che lavora qui negli Stati Uniti e che ha visitato Wuhan”, disse a una trasmissione radiofonica di Voice of America il dottor Anthony Fauci, direttore dell’Istituto nazionale di allergie e malattie infettive (NIAID). “Non c’era alcun dubbio che prima o poi avremmo avuto un caso. E ce l’abbiamo”.

Trump fu informato mentre si trovava a Davos dove si svolgeva l’annuale Forum economico mondiale, un incontro tra esponenti di primo piano della politica e dell’economia internazionale con intellettuali e giornalisti selezionati, per discutere delle questioni più urgenti che il mondo si trova ad affrontare, anche in materia di salute e di ambiente.

Il tycoon americano rilasciò una dichiarazione rassicurante affermando che il governo aveva tutto sotto controllo e che sarebbe andato tutto bene. Una frase incauta che avremmo imparato presto a conoscere anche in Italia. La Covid19 arrivò in un momento molto delicato per gli Stati Uniti, stressati da tre anni di presidenza Trump. L’America si era fortemente polarizzata, attraversata da movimenti come #Metoo che ponevano l’accento in modo forte e dirompente su alcuni aspetti del rapporto uomo/donna o Black Lives Matter che riproponeva con forza la mai raggiunta giustizia razziale.

Il gigante dai piedi d’argilla

Il Covid investì l’America come un uragano cogliendola del tutto impreparata e rivelando tutte le magagne di un sistema sanitario che si fonda essenzialmente sulla sanità privata e lascia milioni di persone senza adeguate tutele. Ad oltre un secolo della terribile pandemia influenzale conosciuta con il nome di “spagnola” che aveva mietuto nel mondo tra i 40 e i 100 milioni di morti, negli Stati Uniti nessuno, al di fuori di una ristretta cerchia di virologi, veterinari e infettivologi, credeva ad una replica di un evento del genere.

Questo può spiegare in parte, il taglio ai budget destinati alle grandi istituzioni che un tempo guidavano il mondo nel contrastare le malattie e nel mantenere in salute gli americani. Ospedali chiusi, scorte minime di dispositivi di protezione individuali (mascherine e guanti), scarsità di ventilatori per l’assistenza respiratoria, la potente e ricca America mostrava un volto impensabile di fronte ad un pericolo che avrebbe ucciso in due anni, oltre un milione di persone.

Il piano pandemico nel cassetto

Eppure durante la transizione tra la presidenza uscente di Barack Obama e quella entrante di Trump, la prima aveva consegnato alla nuova amministrazione un documento di sessantanove pagine chiamato “Playbook for Early Response to High-Consequence Emerging Infectious Disease Threats and Biological Incidents”, un manuale operativo per una risposta efficace e tempestiva ad una epidemia particolarmente virulenta o a incidenti a rischio biologico.

Si trattava di una guida meticolosa che oltre a presentare tutte le risorse disponibili da attivare in caso di emergenza e le sequenze operative da svolgere con relativa tempistica, indicava nei virus respiratori e in particolare nei nuovi tipi di influenza, negli orthopoxvirus (come il vaiolo) e nei coronavirus, i principali fattori di rischio. L’amministrazione Trump cestinò il manuale di Obama.

Una preveggente esercitazione

Eppure nel 2019 un esercitazione promossa dal Dipartimento della Salute e dei Servizi umani degli Stati Uniti, insieme al Pentagono e ad un certo numero di agenzie federali aveva lanciato un sinistro campanello d’allarme sulla capacità degli Stati Uniti di affrontare una grande epidemia.

Lo scenario dell’esercitazione “Crimson Contagion” era questo: un gruppo di turisti internazionali in visita in Cina veniva infettato da una nuova influenza e poi la diffondeva in tutto il mondo. Uno dei turisti, un uomo di mezza età, tornava a Chicago con una tosse secca. Suo figlio partecipava a un evento pubblico affollato e il contagio si diffondeva in tutta l’America. Non esisteva un vaccino e i farmaci antivirali erano inefficaci. Entro pochi mesi, questa ipotetica e nuova influenza avrebbe ucciso 586 mila americani.

L’esercitazione mise in luce l’incapacità delle agenzie di coordinarsi tra loro e la difficoltà di trovare una linea di comando chiara e riconosciuta da tutti, la scarsità delle scorte di DPI e di respiratori, la frammentazione delle risposte degli Stati e perfino delle singole città, il ritardo nell’attivare ove possibile lo smart working. La produzione nazionale di mascherine N95 e FFP2, di siringhe e di altri ausili si rivelò altamente insufficiente, in quanto questi presidi erano forniti in larga misura proprio dalla Cina! Il rapporto sull’esito disastroso dell’esercitazione fu consegnato al Congresso che ritenne opportuno nasconderlo all’opinione pubblica.

Circa un anno dopo quell’esercitazione, una vera pandemia investirà l’America travolgendola e mettendo a nudo tutte le magagne di una società che si era specchiata nella sua arroganza, nascondendo i propri limiti come si fa con la polvere che spazziamo sotto un tappeto.

Se vuoi leggere la prima puntata:

Storia di una pandemia: L’inizio – Ep. 1

Fonti:

alcune voci di Wikipedia

L’anno della peste di L. Wright

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