giovedì, Settembre 19

Terra estrema: gli oceani

Per lo stato delle nostre conoscenze la vita complessa e senziente sembra appartenere soltanto ad un anonimo pianeta roccioso collocato in una zona periferica della Via Lattea. Qui, un incredibile combinazione di fattori ha permesso lo sviluppo della vita per come la conosciamo. Eppure la Terra, se l’analizziamo da un’altra prospettiva è tutt’altro che un pianeta “facile” perché la vita possa prosperare, perlomeno per homo sapiens, i cui lontanissimi antenati emersero alcune centinaia di milioni di anni fa dall’acqua.

Se esprimiamo in volume tutto lo spazio terrestre può sorprendere sapere che soltanto il 99,5% dello spazio è abitabile per gli uomini. Ad iniziare dagli oceani, fiumi e laghi che costituiscono il 71% della superficie del pianeta pari a circa 1390 milioni di chilometri cubi divisi tra superficie e sottosuolo. Di tutto questo spazio, dal punto di vista dell’abitabilità, l’uomo non sa che farsene. Non soltanto non possiamo respirare autonomamente sott’acqua ma non possiamo sopportarne nemmeno la pressione.

Poiché l’acqua è circa 1300 volte più pesante dell’aria, a mano a mano che si scende in profondità, la pressione sale rapidamente: un’atmosfera ogni 10 metri. Se saliamo in cima all‘Empire State Building, uno dei più famosi grattacieli di New York alto 381 metri, la differenza di pressione è quasi irrilevante. Alla stessa profondità sott’acqua le vene collasserebbero e i polmoni si accartoccerebbero fino alle dimensioni di una scatola di fagioli.

Il punto più profondo degli oceani è la fossa delle Marianne, nel Pacifico. Lì, a quasi 11 chilometri di profondità, la pressione supera i 1100 chilogrammi per centimetro quadrato. Una pressione spaventosa. Poche volte l’uomo con mezzi speciali, appositamente adattati è riuscito ad esplorare il più profondo abisso oceanico. I primi a farlo furono il tenente di vascello Don Walsh e Jacques Piccard, a bordo di batiscafo della U.S. Navy Trieste, di progettazione svizzera e produzione italiana che raggiunse la profondità della fossa il 23 gennaio 1960 alle 13:06. Come zavorra vennero usati pellet di ferro, mentre per favorire il galleggiamento fu usata benzina, più leggera dell’acqua. Il riempimento con benzina aveva anche lo scopo di rendere lo scafo incomprimibile.

Gli strumenti di bordo individuarono una profondità di 11 521 metri, più tardi rettificati a 10 916 metri. Sul fondo della fossa Walsh e Piccard furono sorpresi di trovare delle particolari specie di sogliole o platesse, lunghe circa 30 cm, e anche dei gamberetti. Non tutta la vita è quindi preclusa da queste condizioni estreme. Sono solo cinque le discese effettuate per esplorare la Fossa delle Marianne e soltanto tre con uomini a bordo, la più famosa delle quali è probabilmente quella effettuata il 26 marzo 2012 dal regista James Cameron con il sommergibile Deepsea Challenger.

La maggior parte degli oceani è meno profonda della Fossa delle Marianne, ma anche quattro chilometri – la profondità media degli oceani – esercitano una pressione equivalente a quella di quattordici camion carichi di cemento. La sopravvivenza in questo ambiente non è messa a rischio dallo schiacciamento del corpo umano. Infatti quest’ultimo come è noto è costituito in gran parte d’acqua e l’acqua in larga misura è incomprimibile. I guai nascono dai gas presenti all’interno del corpo, in particolare quelli nel polmone: sono loro che effettivamente si comprimono, anche se non sappiamo esattamente a che punto questa compressione diventi letale.

Il vero spauracchio delle profondità marine è senza dubbio l’embolia gassosa (detta anche malattia dei palombari o malattia da decompressione). Si tratta di una grave patologia da decompressione a cui può andare incontro un subacqueo, che si manifesta con la presenza di bolle di gas all’interno della circolazione sanguigna. L’embolia gassosa è generalmente provocata dal mancato rispetto delle norme di sicurezza durante l’attività subacquea, come una risalita troppo veloce rispetto alla velocità di sicurezza di 9/10 metri al minuto oppure l’interruzione dell’attività respiratoria sempre durante la risalita, in particolare durante gli ultimi metri prima della superficie, e la conseguente dilatazione dell’aria contenuta nei polmoni col diminuire della pressione.

In conclusione i mari e gli oceani hanno si generato la vita complessa e senziente della Terra, ed assicurano la sua sopravvivenza attraverso molteplici fattori (climatici, ambientali, energetici, alimentari) ma non costituiscono un habitat dove l’uomo può vivere. E questo come vedremo in prossimi articoli è comune a molti altri luoghi “estremi” del nostro pianeta.

Foto di jacqueline macou da Pixabay

Fonti:

alcune voci di Wikipedia

Storia di quasi tutto di B. Bryson

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