lunedì, Aprile 14

THE FRENCH DISPATCH, LO RICORDI?

NO? MOLTO MALE

Se mai a qualcuno fosse capitato di pensare –cosa posso guardare in meno di due ore?– una delle possibili risposte è sicuramente The French Dispatch (Wes Anderson, 2021). Il perché è abbastanza semplice. The French Dispatch è un film facile. Da guardare s’intende.

Si può dire che sia un film a episodi, estremamente didascalico, chiaro, palese.

Che sia scambiabile per un film infantile?
Assolutamente no, ma c’è da dire che Wes Anderson a mio avviso è tra i migliori (se non il migliore) ad avere la capacità di raccontare una storia matura con l’impianto narrativo di una favola; quindi, in un certo senso è lo sguardo innocente quello che si dovrebbe indossare per farsi travolgere da un film come questo.

Mi si dirà -si va bene, ma quindi The French Dispatch? Cos è? Di cosa parla?

Presto detto, stiamo calmi.

UN TESTAMENTO

Il film racconta l’ultimo numero della rivista FRENCH DISPATCH, diretto da Arthur Howitzer Jr. interpretato dall’immancabile Bill Murray.

In questo numero sono presentati quattro storie, i cui titoli sono “il reporter ciclista”, “il capolavoro di cemento”, “revisione a un manifesto”, “la sala da pranzo privata del commissario di polizia”.

Nella prima parte però viene raccontata la figura del direttore, il rapporto con il suo team di giornalisti e la stima reciproca manifesta in ogni angolo della redazione.
La primissima scena è un esercizio di stile, un vassoio da bar che viene riempito di cibi e bevande, con il solito gioco tra circolarità e simmetria che solo Anderson è in grado di regalare.

Compare poi il titolo del primo articolo, il reporter ciclista.

ENNUI, CITTA’ VECCHIA, CITTA’ NUOVA

L’articolo di Sazerac, interpretato da Owen Wilson, racconta di una cittadella, Ennui, e del suo rapporto con il tempo.

È la tipica descrizione di come un piccolo centro abitato possa mutare negli anni, mostrando bucolicamente il passato e raccontando le incongruenze e le follie del presente. Ennui, tra l’altro, in francese si traduce come “noia”, il che mi sembra perfetto.

Dal punto di vista dello stile comunicativo e cinematografico, questo episodio (chiamiamolo così solo per comodità) è pulito e chiaro, molto breve rispetto ai successivi. È quasi una sorta di introduzione, un tappeto rosso spesso e morbido, sul quale camminare è solo un piacere.

Segnalo una scena in cui il giornalista sale in metro con la sua bicicletta, per un attimo il treno si ferma, le pareti del tunnel sbiadiscono e diventano trasparenti e vengono mostrati i ratti che hanno conquistato il sottosuolo.

In scene come questa si può davvero toccare con mano il rapporto tra regia, scenografia e fotografia, che sono le caratteristiche estetiche che rendono i film di Wes Anderson riconoscibili al primo frame.

(From L-R): Elisabeth Moss, Owen Wilson, Tilda Swinton, Fisher Stevens and Griffin Dunne in the film THE FRENCH DISPATCH. Photo Courtesy of Searchlight Pictures. © 2020 Twentieth Century Fox Film Corporation All Rights Reserved

IL CAPOLAVORO DI CEMENTO

Benicio Del Toro interpreta M. Rosenthaler, detenuto nella sezione di massima sicurezza di un carcere.

Lo conosciamo alle prese con una tela, sta dipingendo una modella che posa nuda per lui. Questa poi scende dal piedistallo, indossa sua divisa da guardia carceriera, mette una camicia di forza al pittore e lo porta fuori da quella grande stanza. Vediamo poi il dipinto che (azzardo) mi ricorda una fusione tra un Pollock e gli acquerelli di Kandiskij.

Un altro detenuto, un commerciante d’arte, vede questo dipinto e se ne innamora, quindi mette alla prova l’artista chiedendogli di disegnare un passero cosi da mostrarlo ai suoi soci e convincerli che è davvero una grande occasione.

Questa storia è raccontata nell’articolo, il film la mostra ma c’è anche in realtà un altro livello: questa storia viene raccontata durante un talk da una presentatrice, che è l’autrice stessa dell’articolo.

Questo è a parer mio uno dei tratti caratteristici di questo film centrali: l’arte di raccontare una storia che simultaneamente è scritta, viene raccontata e si racconta da sola, i personaggi sono vivi grazie ai ritmi serrati proprio come in un’inchiesta.

Wes Anderson ammaestra tutto questo e riesce nell’intento di essere (fintamente) chiaro semplice e didascalico, ma è la maestria in trasparenza quella che permette di seguire la storia con lucidità e fascino.

REVISIONE A UN MANIFESTO

La giornalista L. Kremenz racconta di una rivolta studentesca che prende luogo ad Ennui. La rivolta nasce dall’unione del gruppo di Zeffirelli e quello di Juliette, divisi dalle posizioni sul manifesto redatto da Zeffirelli stesso. La giornalista racconterà di aver revisionato il manifesto insieme alla dinamica tra studenti e istituzioni.

Zeffirelli ci viene presentato mentre sta giocando a scacchi, e infatti anche dietro le barricate giocherà (tramite comunicazioni telefoniche) a scacchi con il sindaco.
Il simbolo della scacchiera e il pretesto della dinamica del gioco degli scacchi è perfetto per rappresentare le “mosse” che gli studenti fanno per trovare l’equilibrio con le controparti, lo scontro e la strategia, i botta e risposta, dal tavolo la scacchiera si espande fino a diventare grande quanto la città stessa.

Mentre guardavo il film, arrivato a questo punto che è poco dopo la metà, ho pensato a Bertolucci e in particolare a due suoi film, Il conformista (1970) e The dreamers (2003).

Al primo perché in alcune scene ho ricevuto uno stimolo dalle scene nel bar in cui i giovani si riuniscono. Al secondo per questi giovani francesi, una sorta di triangolo amoroso (anche se molto diverso da quello di The dreamers) che si instaura, i giochi di ruolo e di potere, e infine, in alcuni momenti, dalla scelta delle palette di colori utilizzati su alcune scenografie e inquadrature.

Ma di questo ne parliamo poi.

LA SALA DA PRANZO PRIVATA DEL COMMISSARIO DI POLIZIA

L’ultimo episodio si apre nella centrale di polizia di Ennui. Il giornalista R. Wright di solito scrive di cucina, e infatti il protagonista dell’articolo dovrebbe essere Nescaffier, chef tenente che ha la fama di partecipare alo svolgimento delle varie azioni delle forze dell’ordine cucinando e migliorando l’umore e lo stato di lucidità dei vari agenti coinvolti.

Caso volle che, durante la cena, il figlio del commissario fosse rapito da una banda di criminali.  Il bambino riesce a comunicare in codice morse (colpendo un tubo con una moneta) con il padre, chiedendo di mandare lo chef per avvelenare i rapitori.
Lo chef viene accolto solo grazie alla sua fama, e per conquistare la fiducia della banda deciderà di assumere il cibo avvelenato davanti ai loro occhi per convincerli che non c’è pericolo.

Segue poi una bellissima scena di inseguimento in cui vengono animate varie tavole di fumetto.

Il giornalista (che viene intervistato in uno studio) ha una memoria a detta sua “tipografica” ricorda tutte le parole che ha scritto nella sua vita, pretesto ottimo per raccontare fedelmente l’articolo all’intervistatore.

Alla fine si scoprirà che Wright voleva tagliare una parte dell’articolo in cui, parlando con lo chef, questo gli dirà che il sapore del veleno era finalmente qualcosa di nuovo, che l’ha sorpreso, che succede di rado ad un uomo di quell’età e di quell’esperienza.

Nella scena finale, tutti i giornalisti della redazione si riuniscono nell’ufficio del direttore, dove giace il suo corpo.
Howitzer è morto nel giorno del suo compleanno, per ricordarlo iniziano a scriverne la biografia mangiando la torta sulla quale non vengono accese però le candeline, perché nessuno potrebbe spegnerle.

COSE CHE MI VA DI DIRE

The French Dispatch è un film che non nasconde nulla. Anche senza mistero e suspanse, il film tiene lo spettatore incollato per un’ora e cinquanta incalzanti e imperterriti.

Le scelte registiche, di scenografia e di fotografia sono quelle di un Anderson in piena maturità artistica, la sceneggiatura è perfetta.

In quanto alla questione Bertolucci, anche nell’ultimo episodio ho riconosciuto lo stesso utilizzo dei colori pastello a voler ricreare alcune atmosfere dello spirito, quindi mi spingo a dire senza nessuna certezza che possa essere a tutti gli effetti un omaggio ad un vecchio cinema, forse anche per l’alternanza del bianco e nero, e delle luci teatrali che vanno a sostituire i movimenti della macchina da presa spostando l’attenzione dello sguardo.

La colonna sonora è minimale e non sovrasta mai la narrazione, non cerca di affabulare lo spettatore ma invece accompagna l’esperienza del film quasi in sottofondo.

Il film mi sembra una riflessione sul fare cinema facendo cinema, ambizione sbiadita, trascurata e quasi totalmente sostituita nel corso dei decenni, raccontare una storia per il piacere di raccontarla e di riscoprirla fa cadere le necessità della vita reale in secondo piano.

The French Dispatch è la dimostrazione che il dramma può anche essere dipinto di leggerezza.
Va bene tutto, basta che tu non pianga nel mio ufficio.

Per saperne di più:

Wes Anderson

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