lunedì, Settembre 16

Uno spietato predatore

Quando osservo il mio gatto Fidel che dorme placidamente sulla sua poltrona preferita o mi scodinzola tra le gambe mentre mi appresto a riempire dei suoi croccantini preferiti la ciotola non sono certamente attraversato dal pensiero che questo piccolo felino, nella sua versione selvatica, sia uno dei maggiori responsabili di vere e proprie estinzioni di specie viventi.

Esistono profonde differenze tra la domesticazione dei cani e quella dei gatti, tanto che tra un gatto di casa ed un gatto selvatico ci sono meno differenze genetiche che tra cani e lupi. Eppure i gatti convivono con gli esseri umani da circa 10.000 anni. E’ probabile che la prima fase di domesticazione sia avvenuta con lo sviluppo dell’agricoltura, l’accumularsi di granaglie da parte dell’uomo attraeva i roditori ed i roditori, a loro volta, attraevano questi piccoli predatori.

I gatti sono animali estremamente prolifici, una gatta può iniziare a riprodursi già a meno di un anno di età ed è in grado di partorire una nidiata di 4 o 5 cuccioli, due volte l’anno e per tutta la durata della sua vita. Per questo motivo questi felini hanno una popolazione mondiale tra le 10 e le 100 volte superiori a quelle di altre popolazioni di predatori dalle dimensioni simili come serpenti, procioni e rapaci.

Ormai è accertato che i gatti sono tra i maggiori responsabili di veri e propri processi di estinzione di altri animali. Soprattutto nelle isole i danni possono essere incalcolabili. Storicamente il “controllo sulla proliferazione felina” era costituito dalla cattura e uccisione dei gatti selvatici. Queste campagne occasionali erano però di fatto frustrate dalla grande fertilità dei piccoli felini. Le uccisioni di massa oltre ad essere crudeli sono state di fatto inefficaci se pensiamo che nei soli Stati Uniti i gatti selvatici oscillano tra i 70 ed i 100 milioni.

Su pressione degli animalisti tra la metà degli anni Ottanta e la decade successiva venne attuata la meno cruenta tecnica della sterilizzazione di massa, ovvero i gatti randagi venivano catturati, sterilizzati e poi liberati nuovamente, magari in aree dove il loro istinto da serial killer potesse essere meno distruttivo.

Nonostante i progressi di questa strategia, la TNR dall’inglese trap-neuter-return, non è facile sterilizzare un elevato numero di gatti tale da innescare una costante diminuzione della popolazione felina. Alcuni modelli matematici indicano che per ottenere questo risultato occorrerebbe catturare circa il 90% delle varie colonie feline e questo è letteralmente impossibile.

Secondo altri modelli presentati da Christopher Lepczyk, ecologo della Auburn University in prospettiva la strategia più “dolce”, la TNR è meno efficace di quella più brutale della soppressione di massa dei piccoli felini. La mancanza di dati certi mette però in discussione entrambi i modelli. Un punto fermo è la corresponsabilità dei gatti selvatici rispetto al rischio di estinzione di alcune specie così come provata indiscutibilmente da vari studi.

In particolare uno studio sui woodrat una specie di roditore della famiglia Cricetidae che vive nel Canada e negli Stati Uniti dimostra che la popolazione di questo animaletto è inversamente proporzionale al numero di gatti selvatici che popolano il loro territorio. Un contributo in tal senso fu fornito da una ricerca condotta da Sonia Hernandez, ecologa dell’Università della Georgia che tra il 2014 e il 2015 monitorò le abitudini di caccia dei gatti dell’isola di Jekill.

La Hernandez dotò di un collare corredato da una mini telecamera 31 gatti inselvatichiti che erano nutriti quotidianamente e poi li liberò. Le mini telecamere documentarono che 18 dei 31 gatti uccidevano una media di 6,15 prede al giorno e che solo una minima parte delle prede era divorata dai piccoli serial killer. In altre parole i gatti non uccidevano per mangiare (se non in minima parte) ma soltanto perché erano….gatti.

Per i conservazionisti il controllo del numero dei gatti selvatici è un problema urgente quanto di non facile soluzione. Nessuna delle strategie fin qui applicate (uccisioni o sterilizzazioni di massa) si è dimostrata efficace, perlomeno sul medio-lungo periodo. Probabilmente occorrerà utilizzare un mix tra le due, integrandole con altre soluzioni attualmente allo studio che prevedono, ad esempio, la costruzione (con l’aiuto umano) di rifugi, dove alcune specie, come i buffi woodrat possano trovare un riparo più sicuro dalle aggressione dei serial killer felini.

fonte:

Le Scienze, giugno 2020, edizione cartacea

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